giovedì 28 ottobre 2010

più vicino

Essendo Memoria esterna un blog ideato in divenire, in questi primi post mi trovo inevitabilmente a tracciare alcune coordinate strada facendo. Prendo a spunto questo post per specificarne un paio, per quanto in fin dei conti esse suonino abbastanza scontate.
La prima riguarda l'insieme dei filoni che attraverseranno il blog: uno dei principali, che inauguro qui, vedrà infatti come protagonista la musica, forse il più potente veicolo di ricordi insieme alla fotografia. La seconda concerne invece la struttura vera e propria di questo spazio: come si evince da questo stesso post, la pesca dei ricordi non seguirà il benché minimo andamento cronologico (né si sforzerà a tutti i costi di evitarlo), quindi si passerà tranquillamente dalla mia personale età della pietra all'altroieri, e viceversa.

Tutto questo per dire che l'altro giorno ho ascoltato  una canzone dei Joy Division che per quanto mi piaccia non mi capita esattamente di sentire quotidianamente: Decades, dall'album Closer (1980). Il nesso con la fotografia qui a fianco, che ritrae Silvia in un quartiere di Osaka tra l'estate e l'autunno del 2001, è forse tutt'altro che evidente, ma di fatto Decades, come del resto l'intero album, è una canzone che all'ascolto mi spedisce immediatamente in Giappone.  Come per tutte le melodie assorbite intensivamente in un arco di tempo circoscritto e poi lasciate  in uno stato di semiabbandono quasi intenzionalmente, come per preservare intatto il legame che esse hanno instaurato con una determinata situazione, all'ascolto il rimando è netto e immediato. Closer non è l'unico album ad avere la capacità di rievocare quel viaggio (degli altri due album forse parlerò più avanti, altrimenti mi brucio subito due post), ma  rispetto agli altri ha la particolarità di sovrapporsi esclusivamente a scenari esterni, nella mia mente.

Con mia somma vergogna, fino a quell'epoca conoscevo il gruppo di Ian Curtis solo di nome, per cui prima della partenza il mio amico Fabio me li consigliò registrandomi una cassetta. A parte il fatto che non sono passati nemmeno dieci anni e già sembra di descrivere il Mesozoico, a parlare di un walkman a musicassette, il nastro su cui Fabio mi aveva registrato Closer e Unknown Pleasures fu uno di quelli che mi portai in viaggio, e soprattutto fu quello che ascoltai maggiormente durante il lungo tragitto che ogni mattina, mentre Silvia dormiva beata sul futon, mi portava dall'appartamento che il mio amico Yuji  ci aveva "prestato", alla scuola di giapponese a cui mi ero iscritto. A questo punto devo dire che la memoria gioca brutti scherzi, perché non ricordo né il nome della stazione in cui era situtao l'appartamento, né quello della zona di Osaka in cui si trovava la scuola che frequentavo. In compenso, ricordo benissimo ciò che i sensi mi offrivano mentre di sottofondo suonavano i Joy Division: l'odore delle siepi d'osmanthus, il sapore di cannella lasciatomi in bocca dalle ciambelle  confezionate che inzuppavo nel caffelatte prima di partire, il gracchiare dei corvi appollaiati sugli alberi del parco, il bizzarro cartello che invitava la gente a fare attenzione ai malintenzionati raffigurandoli come un mostricciattolo verde, le scolaresche  di bimbi che durante le giornate di pioggia sfilavano nella via dietro l'ipermercato con gli impermeabili e i gambali gialli, gli studenti liceali che accorrevano a frotte alla stazione, il segnale acustico dei semafori, l'odore denso e umido che emanava da chioschi e ristoranti, i distributori automatici di caffé, i futon stesi a prendere aria sui balconi, l'affollatissimo parcheggio delle biciclette, le persone che leggevano, dormivano e scrivevano messaggi accalcate nel treno.

P.S.: Ho vinto la pigrizia e, dopo qualche piccola ricerca, sono risalito al nome della stazione vicina (una ventina di minuti a piedi) a casa di Yuji: era quella di Ishibashi. Oltre a transitare per quel luogo ogni giorno per raggiungere il centro di Osaka e la mia scuola, esso era il nostro passaggio obbligato per  i sabati sera nella pulsante Amerika-mura o vicecersa per una domenica pomeriggio  tra i quieti boschi di Minoo e le loro scimmie. Quel treno porta dunque nuovi ricordi che forse saranno materia di post futuri.

mercoledì 20 ottobre 2010

l'occhio invisibile


La foto che ho scelto come intestazione di questo blog (così come quella che compare come immagine del profilo) è stata scattata da mio padre nel 1981, all'epoca in cui io avevo la stessa età che ha ora mio figlio Pietro. E' ambientata nel salotto della casa dei miei genitori, e mi ritrae in una delle abitudini della mia infanzia, ovvero quella di sedermi sul davanzale della finestra con la schiena contro il muro e guardare al di fuori. Adoravo il calore che emanava dal termosifone sottostante, a cui si aggiungeva, nelle giornate di sole, il tepore che filtrava dai vetri. Se mi sforzo riesco anche a evocare la ruvida sensazione della tapezzeria che sfregava contro la mia maglia. La cornice della finestra inquadra un panorama familiare ora evolutosi e sovrastato da nuovi alberi cresciuti negli anni. A giudicare dal mio abbigliamento e dal bianco che sembra colorare uno dei tetti che si intravedono in lontananza, direi che era una giornata d'inverno. Chissà se ero in attesa del Natale.

All'epoca, mio padre non aveva soltanto l'hobby di scattare fotografie, ma anche di svilupparle. A distanza di così tanti anni, se penso alle apparecchiature, alle vaschette di plastica verde, rossa e bianca, alle pinze, mi sale ancora su per il naso l'odore che permeava il bagno della mansarda in cui lui si dedicava al suo passatempo, un odore acre forse dovuto al liquido in cui immergeva le fotografie. Sono sicuro che tutta l'attrezzatura sia ancora intatta nel solaio della casa dei miei genitori, e non nascondo che a volte mi è anche balenata in testa l'idea di riesumarla e cimentarmi nell'impresa. Poi naturalmente la mia naturale pigrizia mi ha puntualmente distolto dal benché minimo tentativo, e l'avvento della fotografia digitale e della carta fotografica per stampanti casalinghe hanno fatto il resto.

Amo queste foto non solo perché evocatrici di ricordi intensi e piacevoli, ma anche in quanto costituiscono per me una testimonianza preziosa di qualcosa d'invisibile. Vivo queste foto come un'emanazione dolce e amara del loro artefice da poco scomparso. Esse rappresentano infatti lo sguardo di mio padre, e in esse io non vedo solo me stesso, ma il me stesso guardato, selezionato, inquadrato, curato, coccolato dall'occhio di mio padre. Guardandole, posso provare a immedesimarmi in lui nel momento di premere il pulsante, entrare nei suoi panni, essere lui e tentare di immaginare come vedeva quel bambino inquadrato dall'obiettivo, così simile al bambino che ora io stesso fotografo.

lunedì 18 ottobre 2010

l'età dell'oro

Mentre scavavo tra i ricordi alla ricerca di quello che meglio si addica a inaugurare questo blog, ho iniziato a riflettere su cosa significhi parlare di ricordi, per una persona della mia età e della mia generazione. Del resto, i ricordi che possono trovare spazio su queste pagine elettroniche si collocano necessariamente lungo l'arco di circa tre decenni, ma il processo di sedimentazione necessario a far diventare ricordi le esperienze finirà probabilmente per escludere in una certa misura l'ultimo di essi (spero però di smentirmi in seguito). Per il momento, quindi, il serbatoio a cui attingere si colloca in un arco temporale relativamente ristretto, ovvero quello che copre il ventennio Ottanta-Novanta.
Inevitabilmente tale periodo storico, accompagnandosi a precise coordinate geografiche, sociali e quant'altro, definisce la natura dei miei ricordi. Ciò è di per sé scontato, ma mi dà da pensare la distanza che intercorre tra i ricordi che io mi accingo a trascrivere, immaginando di raccontarli ai miei figli, e i ricordi che invece io ho vissuto da ascoltatore quand'ero a mia volta bambino. Penso ad esempio ai racconti dei miei nonni paterni, nei quali emergeva spesso l'esperienza della guerra, e anche se non ne ho un ricordo molto chiaro, mi sembra di sentire in corpo il sapore delle parole di mia nonna Rina mentre nella penombra della sua camera da letto mi raccontava di quanto erano stati duri i suoi tempi. Più in generale, l'aura di rustica austerità e rigore che appariva ai miei occhi nell'ascoltare i racconti di gioventù dei miei avi più prossimi, un'aura evidenziata e forse  soggettivamente esagerata dal contrasto con il mio vissuto quotidiano, donava a quei ricordi un fascino epico, relegandoli in un passato tanto lontano quanto ermeticamente sigillato e abbandonato. Il presente di un fortunato bambino di estrazione borghese, nato alla fine degli anni Settanta nella florida e rassicurante reltà della provincia piemontese doveva essere presente per sempre: una condizione ereditata e data per scontata come naturale, eterna, immutabile, invulnerabile.
Gli ultimi anni, tuttavia, si sono dati da fare su diversi fronti per sgretolare almeno in parte queste certezze, e la sensazione ora è strana: forse sono troppo pessimista, ma al di là della patina di nostalgica bellezza che tira a lucido i ricordi dolci come quelli amari, se prefiguro me stesso mentre racconto della mia  infanzia e della mia giovinezza a un immaginario nipotino seduto sulle mie ginocchia, mi vedo evocare una realtà mitica in cui tutto andava sempre e comunque per il meglio: quasi una sorta di perduta età dell'oro.

lunedì 11 ottobre 2010

prologo

Inauguro con questo post il mio nuovo blog: Memoria Esterna. E' ancora in fase di costruzione, specialmente per quanto riguarda la veste grafica, quindi per ora prendetelo un po' così com'è... se fossi stato troppo dietro ai particolari, non avrei mai iniziato.

Il nome nasce da un'idea evidentemente non troppo originale, visto che al momento di registrarlo mi sono accorto che su Blogger già un altro utente aveva usato lo stesso titolo basandosi su un'idea sostanzialmente simile. Trattandosi però in quel caso di un blog contenente due soli post e fermo da mesi, mi sono sentito libero di procedere comunque alla registrazione con questo titolo, limitandomi a inserire un trattino nell'indirizzo (quindi occhio: per digitare l'indirizzo di questo blog ci va il trattino tra "memoria" ed "esterna").
Si tratta di uno spazio radicalmente personale nei contenuti (per questo ho deciso di non ricorrere più ad alcun nickname) e che pur nascendo, in un certo senso, da una costola del mio precedente blog, parte da premesse sostanzialmente diverse. Esso avrà in fatti un'identità più  rigida e definita, dato che l'unico imprescindibile comune denominatore ad attraversare ciascun post sarà il tema dei ricordi (ovvero solo uno dei tanti temi occasionalmente trattati nel mio precedente blog).

In questo senso, il titolo di questo blog ne indica una duplice funzione. Innanzitutto quella di  luogo in cui creare un archivio, una sorta di copia di backup della mia memoria: siccome ho poca fiducia nelle mie capacità mnemoniche, sento il bisogno di raccogliere e fissare da qualche parte tutti i ricordi che, di quando in quando, stimolati da una foto, da una musica, da un odore, da una persona, guizzano fuori dall'oblio. In altre parole, voglio salvarli da qualche parte prima che sbiadiscano del tutto, non solo per me ma anche per i miei figli.
La seconda funzione indicata dal titolo del blog è quella di vera e propria esternazione della memoria. Se volessi soltanto raccogliere dei ricordi, potrei limitarmi a tenere un diario privato, senza per forza aprire un blog. Francamente, però, non provo alcun gusto, né interesse, a scrivere senza essere letto da qualcuno, fossero anche quattro gatti i miei lettori. La mia personale sfida è dunque questa: scrivere qualcosa di prettamente personale e vedere se riesco a renderlo interessante nonostante riguardi solo me e pochi altri (e nonostante io abbia vissuto, almeno finora, un'esistenza tutt'altro che avventurosa).

Ed ecco che arrivano gli interrogativi: ne sarò in grado?
E sarò in grado di raggiungere almeno i quattro anni di durata del mio precedente blog?