giovedì 10 novembre 2011

ricordi futuri

Ci sono dei ricordi che vengono spazzati via dalla rapidità con cui si susseguono esperienze particolarmente significative. Io e Silvia ce ne siamo già accorti con Pietro: i primissimi anni di vita di un bambino sono come un fiume in piena di novità e momenti intensamente memorabili che si sovrappongono con velocità implacabile di pari passo con la sua vertiginosa evoluzione. Così, prima che tu te ne accorga, il bambino di prima è già stato sostituito prepotentemente dal bambino che hai davanti tutti i giorni, e quello di allora ti appare come un pallido ricordo. Ti sembra impossibile che sia stato così, perché lui è innegabilmente quello che hai davanti, così diverso, completo, formato. Nei primissimi anni di vita di Pietro, quando la mia attività di blogger scorreva con diverso metabolismo, avevo approfittato del mio vecchio blog per fare il punto della situazione ogni tanto, per cui ora ho la fortuna di poter andare a rinfrescarmi la memoria su com'era Pietro a tot mesi o anni, visto che molte cose le ho dimenticate.
Poiché questo blog ha un'impostazione più rigidamente definita e altri tempi di pubblicazione, finora non ho fatto lo stesso per Gemma. Poi però ho pensato che i ricordi non esistono solo al passato, ma che possono anche essere fissati in divenire, in determinati casi come quello di cui sopra, affinché restino appunto ricordi e non cadano invece nell'oblio.
Vorrei quindi riportare, a mo' di appunti, alcune cose su Gemma che non vorrei scordare. Probabilmente ne verranno altre in seguito.

Gemma, diversamente da Pietro, ha mostrato una curiosità per il cibo sin da piccolissima. Non aveva ancora l'età per le pappette, che già, credo poco prima dei cinque mesi, pretendeva di assaggiare quel che avevamo nel piatto. La prima pappa fu una gioia divorata senza prender fiato. Anche i gusti sono diversi da quelli di Pietro: formaggio, pomodoro, prosciutto... è attirata praticamente da tutto, e preferirebbe essere indipendente nel mangiare.

Il giorno della festa del papà, all'età di sette mesi circa, ha detto "papà!". Però è stato più un caso che altro.

Ci ha messo più di Pietro a iniziare a gattonare. Ha mosso i primi passi da poco, ovvero intorno al primo anno d'età. In compenso, ha una gran voglia di camminare in piedi, e vuole sempre essere presa per mano per girare per la casa. A un anno e due mesi circa è stata per la prima volta ferma in piedi senza tenersi a nulla per qualche secondo.

Ha un carattere meravigliosamente solare. Saluta sempre tutti con la manina e un sorriso quando arrivano e se ne vanno, gridando "TA!" che nella sua lingua significa "Ciao!".

A un anno e due mesi, le altre parole che pronuncia sono "Sciusciu" (ciuccio), "Papa/Mama/Baba" (un'entità indefinita che comprende me, Silvia e Pietro), "pa!" (pappa), "nonna", "da" (dammelo), "na-na-na" (no, grazie) e infine "schöa" (un'entità indefinita che comprende tutto ciò che desidera, pronunciata con un accento che mi sa un po' di cinese).

Da diversi mesi ha imparato il verso del leone, il suo primo animale preferito. In realtà, il suo ruggito somiglia più al verso di una foca o al ragliare di un asino, ed è applicabile a quasi tutti gli animali (galline, maiali, eccetera), con l'eccezione del cane e di altri simili che secondo lei fanno "ba!". Negli ultimi giorni, hanno fatto la coro comparsa anche il muggito della mucca e il belato della pecora.

Se apprezza il cibo, inizia ad annuire con la testa guardandoti negli occhi per un quarto d'ora.

Quando sente il rumore della porta d'ingresso al piano di sotto, a ora di pranzo e cena, inizia a chiamarmi pavlovianamente. Amore di papà.

Già da mesi, ovvero prima dell'anno di età, mostra una passione tutta femminile per scarpe, braccialetti, collane e borsette, che prova costantemente a indossare, talvolta con successo.

Da qualche tempo a questa parte inizia a ballare contenta quando sente le canzoni dello Zecchino d'Oro, accompagnandole con gesti delle braccia da cantante di hip-hop (argh).

In generale, non avendo il problema della dermatite come Pietro, ha sempre dormito con maggiore continuità di lui, e si addormenta anche con minore difficoltà la sera.

Se la mettiamo nel lettone si mette di traverso per la gioia della mia schiena. Qualche volta mi ha afferrato il naso di notte.

Se le canti "nanna cuchetta", inizia a ciondolare piegando la testa di lato.

Fa le pernacchie e se la ride.

giovedì 22 settembre 2011

drive nel juke box


I R.E.M., gli R.E.M., si sono sciolti, e così un tassello fondamentale della storia del rock e del pop lascia la scena dopo un decennio fisiologicamente non troppo felice ma non privo di momenti più che dignitosi. I R.E.M. (mi si perdoni la pronuncia italiana, ma io riesco a chiamarli solo così) rappresentano uno dei pochi gruppi che mi hanno accompagnato ininterrottamente dall'adolescenza a oggi. Alcuni gruppi che ascoltavo a quindici anni ora mi hanno stufato. Altri mi piacciono ancora, ma in fondo li ascolterò sì e no una volta all'anno. Altri suscitano in me un senso di imbarazzo, a pensarci oggi. I R.E.M. no. Li ascolto da circa vent'anni, spesso ho almeno un loro CD in macchina, e ogni volta che metto su Green mi stupisco di quanto sia bello.
Quali sono dunque i miei ricordi legati a questa storica band? Iniziai ad ascoltarli credo in prima o seconda liceo, su due musicassette originali (erano, ovviamente, Out of Time e Automatic for the People) prestatemi dal mio amico Mana. Certo, prima ancora avevo visto decine di volte i video di Losing My Religion e Everybody Hurts passare su MTV o Videomusic. Tuttavia, i ricordi più intensi risalgono a un paio d'anni più tardi, all'uscita di Monster. Era l'età giusta per apprezzare un album del genere, e ancora oggi, se tiro fuori il libretto dalla custodia del CD, l'odore e la ruvidezza della sua carta opaca mi riportano a quei giorni, quando mi struggevo all'ascolto di You. Andai anche a vederli in concerto al Palastampa di Torino, insieme a Mana e a Gianfranco, un signore che purtroppo non c'è più e che mi pagò pure il biglietto. In seguito ricordo che mi procurai anche i primi due album, Murmur e Reckoning (Document, Green e gli altri vennero solo più tardi), e durante una vacanza in Umbria con mia sorella comprai una videocassetta contenente alcune riprese live dei vecchi tempi. Credo che fosse uscita in edicola, e allegata c'era anche una storia a fumetti che descriva l'esordio della band. Chissà dov'è finito quel libretto? Sarà in qualche scatolone? Devo assolutamente ritrovarlo.
A quel tempo cantavo anch'io in un gruppo, un classico gruppetto adolescenziale fondato insieme a un paio di miei compagni di classe. Provammo anche a suonare What's the Frequency, Kenneth?, ma la nostra versione scalcinata non uscì mai dalla sala prove. A ogni modo, il ricordo più intenso che ho dei R.E.M. risale a quel periodo, e mi trovavo proprio in compagnia dei Black Riders (così ci chiamavamo). Eravamo tutti insieme in una saletta del bar della stazione di Alba. C'erano un biliardo, forse un videogioco... e poi c'era un juke-box. Sì, proprio un juke-box. Esisteranno ancora? Dato che eravamo "musicisti", ci venne naturale mettere su una canzone. Non credo che ce ne fossero tante che mi piacessero, ma c'era Drive, e allora spesi una moneta per sentirla. All'ascolto provai un brivido, e lo provo tuttora.

domenica 28 agosto 2011

luciano

La scorsa notte Luciano se ne è andato. Luciano era il marito di mia madrina Marinella, cugina di mia madre. Era di Terni, lavorava per le Ferrovie dello Stato. Era un uomo alto, brillante, simpatico.  Aveva un'aria buona. Il suo accento umbro spiccava nei ritrovi di famiglia.
Il suo calvario iniziò all'incirca tre anni fa, all'epoca in cui suo suocero, mio prozio Dorino (Binello Teodoro, fratello di mio nonno Berto), moriva a sua volta di cancro e si ricongiungeva alla moglie Elia. Marinella e Luciano scoprirono, credo, nello stesso periodo, di avere entrambi un tumore, e iniziarono  insieme la loro personale battaglia con una forza, un coraggio e una quantità di risorse tali che mi hanno sempre lasciato stupefatto e ammirato. E non lo dico con spirito retorico: ce l'hanno davvero messa tutta.
Poi mia madrina l'ha preceduto nell'aprile dell'anno scorso, ma Luciano non ha smesso di lottare. Ha provato diverse cure, diverse cliniche, è persino andato nel fitto della giungla cubana a procurarsi, inutilmente, il veleno dello scorpione rosso. L'ultima volta che l'ho visto è stata questa primavera, quando è venuto su a Canale per la messa di anniversario della morte di Marinella. Abbiamo pranzato insieme da mia madre, e io ho pensato che forse era la prima volta che passavo così tanto tempo con lui, che parlavamo così a lungo.  In fondo, in passato l'avevo visto quasi sempre di sfuggita quando veniva su con Marinella a cenare con i miei per capodanno o festività simili. Al di là dei sintomi della malattia e delle cure, quella volta mi era sembrato relativamente in forma, per cui ho anche pensato che ci sarebbero state altre occasioni.
Invece no, e ora che se ne è andato anche Luciano, penso con tristezza al fatto che tutto un ramo della mia famiglia, quel ramo dei Binello che partiva da mio prozio Dorino, è stato reciso per sempre e non ne rimane traccia vivente. Trasferitosi anch'egli a Terni dopo esser rimasto vedovo,  Dorino mi chiese più volte di andarli a trovarle, e io mi ripromisi più volte di farlo. Ma poi, tra una cosa e l'altra, ho sempre rimandato. Ora le occasioni sono sfumate e restano anche ben pochi ricordi. Non mi rimane che andare a dare un goccio d'acqua ai fiori ogni tanto, come Luciano mi aveva scherzosamente chiesto questa primavera.

domenica 21 agosto 2011

patrimonio

Ieri sera ho finito Patrimonio di Philip Roth, di cui, ammetto, finora avevo solo letto Lamento di Portnoy e Pastorale americana. Mi era già venuta voglia di leggerlo tempo fa,  dopo aver visto questo post scritto da un mio amico, ma ho deciso di affrontarlo solo ora per creare la giusta distanza rispetto alla morte di mio padre. Il libro parla infatti del rapporto tra l'autore e il padre malato di cancro, e degli ultimi mesi di vita di quest'ultimo. Al di là dell'effettivo valore del libro, indubbiamente un capolavoro, vi ho ritrovato molte delle sensazioni che provai nel corso della terribile progressione della malattia. Molte di quelle riflessioni, di quelle lacrime, di quei pugni nello stomaco, di quel senso di impotenza di fronte a un male così spietato.
Un passaggio in particolare descrive perfettamente uno dei vari stati d'animo che si alternavano in me in quei giorni. Uno stato d'animo che, in fin dei conti, nei mesi successivi mi ha spinto a creare questo blog. Quindi, smentendomi in parte rispetto al mio ultimo post, lascio che siano le parole di Roth a rievocare quei momenti nei quali restavo seduto in silenzio sul suo letto a fissargli le mani:

"Lo osservai intensamente, come per la prima volta, e continuai ad aspettare che nella testa mi si formassero altri pensieri. Ma non ne arrivarono più, nessun altro pensiero tranne questo: che dovevo fissarmelo nella memoria per quando fosse morto. Forse gli avrebbe impedito di sbiadire e diventare etereo col passare degli anni. «Devo ricordare con precisione, - mi dissi, - ricordare ogni cosa con precisione, in modo che quando se ne sarà andato io possa ricreare il padre che ha creato me». Non devi dimenticare nulla."





venerdì 5 agosto 2011

arma a doppio taglio

Esattamente un anno fa, a quest'ora, mio padre ci lasciava, abbandondoci alla sua assenza. Mentre si avvicinava la data di questo triste anniversario, mi sono chiesto più volte cosa avrei potuto, cosa avrei dovuto scrivere su questo blog incentrato sulla memoria. Avrei  dovuto rievocare quel giorno? Avrei dovuto fare un resoconto di quest'anno e del vertiginoso senso di vuoto che l'ha caratterizzato? O sarebbe stato meglio trascrivere i ricordi più belli e importanti che ho di mio padre, o ancora uno solo, il più emblematico? Ma la figura di mio padre e la sua assenza non permeano già forse ogni angolo di questo blog? Basta buttare l'occhio sulla colonna delle etichette qui a destra, per rendersene conto.
Fatto sta che non mi va di parlarne in quest'occasione. Per una volta, preferisco mantenere nell'intimo della mia memoria privata i ricordi più belli e quelli più dolorosi.
C'è però una piccola considerazione di carattere generale e attinente al tema che anima questo blog, che mi sento di fare: nel corso di quest'anno mi sono reso conto di quanto i ricordi possano essere anche un'arma a doppio taglio. Si sa che rievocare alla memoria degli eventi, anche dolorosi, può dare comunque un senso di piacere. A volte è stato così, ma non sempre.  Ci sono stati giorni nei quali mi sono sentito letteralmente aggredito dai ricordi, che si accavallavano mio malgrado nella mia mente, violenti e caotici, ribadendo tutti ad alta voce un'unica amarissima verità, di una semplicità disarmante: che non ce ne sarebbero stati altri.

sabato 23 luglio 2011

uno scrigno di sorprese 3/3: l'aurea

 L'ultima sorpresa uscita fuori dalla scatola di fotografie di mia nonna Rina è naturalmente costituita da quelle che ritraggono mio padre, per poche che siano (tutte le altre se le era già prese lui in passato, per passarle allo scanner e catalogarle). Mio padre Bartolomeo compariva infatti nel servizio sul funerale di mio bisnonno, in una foto del matrimonio di mia zia Margherita (Mimi), e infine in queste due foto scattate nella seconda metà degli anni Sessanta. Sul retro di una di esse mia nonna aveva scritto, con una grafia dall'aspetto ormai antico:

 Dott. Nino - 1° anno l'aureato in medicina


Traspare in questa didascalia tutto l'orgoglio di mia nonna per i risultati conseguiti dal figlio, probabilmente il primo laureato, in un'epoca in cui la laurea non si dava ancora quasi per scontata, di una famiglia di commercianti di stoffe e carbone, di falegnami e filandere.
Per il resto, non ho idea di dove sia stata scattata (immagino in un ristorante di Torino), né di chi siano le persone ritratte insieme a lui, salvo l'uomo con gli occhiali che mia madre dice essere un medico suo compagno d'università.
Sugli anni universitari di mio padre, purtroppo, non so molto, ma questo è un tassello in più, e per ovvie ragioni è ai miei occhi la più preziosa delle sorprese.

lunedì 11 luglio 2011

uno scrigno di sorprese 2/3: il funerale di nonno giacomo

La scatola di fotografie di cui ho scritto nell'ultimo post conteneva un'altra sorpresa, ancora più inattesa. In un piccolo album dalla copertina nera, era infatti racchiuso un sintetico servizio fotografico del funerale di mio bisnonno Giacomo (Giacomo Raimondo), padre di mia nonna Rina. Realizzato da un fotografo professionista (sull'etichetta è indicato Servizi Fotografici A. Rafele, Piazza G. Grosso 2, Cambiano) proprio come si usa tutt'oggi per i matrimoni, testimonia un'usanza adesso perduta e per me inimmaginabile.
La selezione di fotografie che espongo qui sotto fu scattata il 27 aprile del 1957, e mostra il corteo che, dall'abitazione di mio bisnonno (il piccolo palazzo giallo in piazza Marconi che vedo oggi dalla finestra della mia cucina e che attualmente ospita un'erboristeria) prosegue fino alla chiesa parrocchiale. Alla testa del corteo si riconoscono la moglie Caterina Mulasso, i miei nonni, e infine mio padre e mia zia Margherita ancora bambini.
Sono per me fotografie molto preziose, per diversi motivi. Innazitutto, esse costituiscono una piccola testimonianza visiva della Canale d'allora: vi si intravedono infatti alcune abitazioni non ancora, o almeno solo in parte, rimpiazzate da orrendi palazzi piastrellati anni Sessanta-Settanta; in Via Roma (angolo Via Garibaldi) si nota l'insegna di un negozio di cappelli e calzature (Barbisio), mentre sull'altro lato compare un manifesto d'epoca che pubblicizza la tintura per indumenti "Super Iride"; infine, è evidente la diversa conformazione del piazzale della Parrocchia di S.Vittore (stando a quanto dice mia madre, la casa che si vede sullo sfondo nell'ultima foto, al posto della quale ora c'è la cartoleria Marchisio, apparteneva a un sarto di nome Arturo, amico di mio nonno Berto).
Ciò che tuttavia emerge con maggiore evidenza da tali fotografie sono i radicali cambiamenti, verificatisi nell'arco di poco più di cinquant'anni (ma anche molto meno, perché nei miei trent'anni di vita non ho alcun ricordo del genere) negli usi e nei costumi della popolazione canalese: la relativa imponenza del corteo, preceduto da bambini, suore, frati e donne col velo, così come l'importanza stessa attribuita al funerale, tale da giustificare addirittura un servizio fotografico, sono indicatori di quanto diversamente fossero concepite le dimensioni religiosa e comunitaria, e di quanto maggiore rispetto a oggi fosse il ruolo che esse esercitavano nella vita della collettività paesana.
Per finire, queste fotografie raffigurano un evento importante della storia della mia famiglia, mostrandomi com'erano allora i protagonisti che lo subirono. Io non conobbi mai mio bisnonno Giacomo, che morì di tumore alla prostata vent'anni prima della mia nascita, ma ne presi il nome e ne sentii spesso parlare da mia nonna e da mio padre, che lo descrivevano come un uomo forte, amato e rispettato. Di suo sopravvive oggi il ciabòt che egli stesso costruì e che uso ancora oggi.
Scrive di lui mio padre, in una nota dell'albero genealogico:

Uomo molto energico e di bell'aspetto. Iniziò l'attività di maniscalco.
Poi passò al commercio di carbone e di tualete. Molto amato dai
compaesani. Perse una figlia dell'età di 16 anni per linfoma.









martedì 5 luglio 2011

uno scrigno di sorprese 1/3: aria fresca

Da sinistra: nonno Tavio, Lena, nonna Rina, Secondo.
Fotografia scattata a Monaco nel settembre del 1979.

Come già accennato in un post precedente, alcuni mesi fa ho scoperto, a casa dei miei genitori, una scatola di legno che conteneva le fotografie appartenute a mia nonna Rina. Era rimasta su una scarpiera per non so quanti anni, credo dalla morte di mia nonna, e probabilmente mai nessuno l'aveva aperta, da allora. La maggior parte di esse era stata scattata in occasione di viaggi (probabilmente gite organizzate, nel corso degli anni Settanta-Ottanta, dal centro anziani o dalla parrocchia di Canale), e ritraeva i miei nonni spesso in compagnia della loro coppia di amici Lena e Secondo (anch'essi parte dei miei ricordi d'infanzia, e anch'essi dimenticati fino a oggi). Sfogliare quel mucchio indistinto di polaroid ingiallite e istantanee sghembe o fuori quadro ha rinvigorito l'immaginario visivo e contestuale attraverso cui oggi rievoco nella mente i miei nonni paterni, scomparsi una quindicina d'anni fa, rispolverando in me angoli della memoria fino a oggi accantonati. Sì, perché mi sono accorto che, dopo tutti questi anni (circa metà della mia vita), quell'immaginario era andato cristallizzandosi eccessivamente su un pugno di situazioni e una manciata di fotografie scattate da mio padre principalmente negli anni Ottanta nel cortile della nostra casa, oltre che su uno sparuto gruppetto di ritratti di gioventù che però non fanno direttamente parte dei miei ricordi. Non che le gite dei miei nonni rientrino nei miei ricordi personali, però li hanno sfiorati in qualche modo, mediati da racconti e souvenir. Non so bene come esprimerlo, ma nell'aprire quella scatola di fotografie scattate in giro per l'Italia e occasionalmente per l'Europa, mi è sembrato un po' di liberare i miei nonni da cornici anguste e sempre uguali a se stesse (quelle che li racchiudono insieme a me e ai miei fratelli bambini, ma anche quelle che ne fissano l'esistenza sulla lapide di famiglia), conferendo loro nuova vita, respiro, tridimensionalità. Mi è sembrato di aprire una finestra, fare luce, portare nuova aria.
Sarà fisiologico, ma non mi sembra vero, né giusto, che io ricordi così vagamente, così malamente, i miei nonni. Vorrei avere più memoria, per rendere giustizia all'affetto provato da loro nei miei confronti. Me lo dico soprattutto ora che, da genitore, ho modo di osservare da un'angolazione diversa quale sia il rapporto tra nonno e nipote. E mi rendo anche conto di quanto li conoscessi poco, in fin dei conti.
 Diventa difficile tenere un blog sulla memoria quando ci si trova davanti un magma indistinto pieno di zone d'ombra. Fortunatamente ogni tanto può capitare che ti giunga in aiuto uno scrigno segreto, a rischiarare qualche angolo buio.

giovedì 16 giugno 2011

la mamma del ragno

Ieri, nel mucchio del compost da sempre situato in un angolo dell'orto che affianca la casa dei miei genitori, ho trovato una nidiata di topolini di campagna. Erano minuscoli e rosa e squittivano impercettibilmente. Subito mi è balenata l'idea che forse non sarebbe stato tanto saggio tenerli in vita, onde non trovarsi poi la casa invasa dalle prolifiche bestiole... ma ovviamente non ce l'ho fatta: li ho mostrati a Pietro e poi li ho amorevolmente ricoperti.
Qualche settimana fa, in un vaso sul balcone di casa mia, una colomba ha fatto due uova. La tenerezza e l'entusiasmo iniziali (mi piaceva l'idea di mostrarne le evoluzioni a Pietro) si sono presto smorzati quando ci siamo trovati il balcone sommerso (per usare un eufemismo) dalle loro cacche. Nonostante il disagio di dover rinunciare a un balcone e la paura di eventuali malattie di cui i piccioni sono portatori, non ce l'ho fatta a far fuori quei due pulcini sgraziati... quindi abbiamo aspettato un mese affinché prendessero il volo, prima di smantellare tutto quanto.
Se trovo un ragno o un insetto sgradito in casa, invece di ucciderlo cerco sempre di accompagnarlo fuori dalla finestra, nei limiti del possibile. Se lo uccido, provo comunque un piccolo (come una punta d'insetto, per l'appunto) senso di colpa, leggero ed effimero ma immancabile.
Tutto questo per dire che il pensiero di uccidere degli animali, anche i meno simpatici, anche quando lo richiederebbe il buon senso, è per me qualcosa di doloroso e mi costa un certo sforzo, a meno che la paura (vedi vespe e calabroni - di cui ho il terrore) o il fastidio non superino di gran lunga la pietà. Mi sono chiesto da dove abbiano origine queste mie remore. Certo, da bambino (e un po' ancora adesso) ero un grande appassionato di animali, ho letto e riletto centinaia di volte libri sull'argomento, ero addirittura iscritto al WWF, ho come tutti subìto gli effetti dell'edulcorata antropomorfizzazione disneyana, eccetera eccetera. Mi piace tuttavia pensare che tale senso di colpa tutto abbia avuto origine da un unico episodio.
Ricordo infatti che da piccolo, credo tra i tre e i cinque anni, mi piaceva uccidere i ragni. Ho una vaga memoria della sensazione e del rumore secco e rimbombante prodotto nello schiacciarne uno con la scarpina sul pavimento arancione del bagno del piano di sotto. Mi trovavo insieme a mia nonna Gemma: lei li tirava giù dal soffitto con la scopa, mentre io avevo il compito di rincorrerli e freddarli. Era divertente, ma poi questo mio piacere fu frenato, credo non molto tempo dopo, da un piccolo evento apparentemente insignificante (ma il fatto stesso che me ne ricordi a distanza di trent'anni non ne indica forse l'importanza?). Ebbene, mi trovavo vicino al termosifone del bagno del piano di sopra, tra il blu scuro delle piastrelle e il bianco delle tende. Lì vidi un ragno e feci per ammazzarlo, quando mia madre mi disse: "Se lo uccidi, poi cosa penserà la sua mamma, non vedendolo più tornare?". Questa considerazione mi diede molto da riflettere. Il pensiero della mamma ragno che se ne stava nella sua tela ad attendere invano il ritorno del figlio instillò in me una sorta di malessere, lieve ma ben radicato.  Quasi un riflesso pavloviano, l'effetto di una cura Ludovico. Persino negli anni del tipico sadismo infantile credo di non aver mai fatto del male a qualche animale (per lo meno volutamente - e qui ci sarebbe materia per un altro post).
Fanno eccezione le solite povere mosche, le zanzare e qualche bruco.

mercoledì 8 giugno 2011

memorie flash (2) - via roma, angolo via ciriagno


L'angusto corridoio d'ingresso dell'appartamento in Via Roma (angolo Via Ciriagno) nel quale andarono a passare i loro ultimi anni i miei bisnonni Minot e Delina, genitori del mio nonno materno, dopo una vita trascorsa a Mulino Galletto. Ricordo, in quell'ingresso dalle tinte biancastre, la figura imponente di mio bisnonno, un giorno che andai a trovarlo insieme a nonno Berto. Nonno Minot era stato mugnaio, aveva delle mani enormi e nodose, un volto felino e occhi di ghiaccio. Ricordo molto poco di lui. Forse mi incuteva anche un po' di timore.
Sotto il loro appartamento, in un piccolo palazzo che già da oltre un ventennio, forse quasi un trentennio, è stato abbattuto per far posto a un edificio più grande e moderno, c'era un negozio di alimentari che si affacciava sull'officina Visca, al posto della quale ora c'è un Maxisconto. Ricordo che accompagnai mio nonno Berto in quel negozietto, e lui comprò del prosciutto cotto avvolto in carta gialla. Ricordo che quella volta appresi che del prosciutto non si mangia solo il grasso, come invece facevo io.


Le due immagini accanto mostrano un dettaglio del volto e uno delle mani di nonno Minot (Domenico Bernardo Binello, padre del mio nonno materno), in due fotografie scattate da mio padre nel 1981.

martedì 31 maggio 2011

memorie flash (1) - la casa delle pumpette

Ci sono alcuni ricordi di infanzia che sono troppo vaghi, frammentari e scollegati per riuscire a inserirli in un discorso di ampio respiro. Per quanto mi sforzi di ricordare, di connetterli ad altro, se ne stanno lì, a galleggiare come isole nel nulla, prive di ponti che consentano una visione d'insieme. Sono frammenti che difficilmente dimenticherò perché ormai sono, così come sono, impressi a fuoco nella mia memoria. Sebbene il tempo abbia eroso tutto intorno la terra su cui poggiavano, essi ormai se ne stanno lì, induriti, fossilizzati, eterni e soli. Ma chissà che, trascrivendoli, non riportino a galla qualcos'altro...

Ecco dunque il primo :

L'appartamento di due vecchine amiche di mia nonna Rina, dette in piemontese "Pumpette", che abitavano in un punto imprecisato di Via Mazzini, vicino alla casa con le due statuette di Topolino sul muretto che fu la casa dell'infanzia di mio padre. Ricordo che mia nonna qualche volta mi ci portò, da bambino, e mi tornano alla memoria un arredamento antico, mobili scuri, un soffitto basso, caramelle di zucchero e un colore aleggiante tra il turchese e il verde pallido. Non so perché, ma se mi sforzo di collocare queste visite, mi viene in bocca un sapore natalizio, un'atmosfera dickensiana, la nebbia, il freddo, la luce dei lampioni nel pomeriggio che è già sera. Una Canale quasi vittoriana tanto sembra distante nello spazio e nel tempo. Chissà quanto c'è di autentico, e quanto invece è frutto di contaminazione, di sovrapposizione e stratificazione, in questi sapori?

giovedì 24 marzo 2011

il salice piangente e la storica invasione

1982, io abbracciato al salice.
Come accade per le musiche, capita che alcuni odori accompagnino esperienze particolarmente intense della nostra vita e che pertanto, a distanza di anni, sia possibile evocarne con la mente un ricordo, per quanto vago e difficile da definire, direttamente nelle nostre narici. Alcuni di questi odori, se incontrati a distanza di anni, risvegliano memorie piacevoli (nel mio caso, penso al profumo che aleggiava nel laboratorio della panetteria Scaravaglio quando il panettiere mi permetteva di guardarlo lavorare mentre mia madre faceva la spesa nel negozio adiacente). Talvolta, tuttavia, accade che certi odori rimandino a esperienze meno simpatiche.
Un odore che non sento ormai da anni ma che saprei disegnare perfettamente a memoria se solo gli odori si potessero rappresentare graficamente, è quello dolciastro che aleggiava a casa dei miei genitori durante la storica invasione del Cossus cossus, un episodio entrato ormai  a far parte della mitologia privata di casa Calorio. Allora, ai tempi delle scuole elementari (credo fosse il 1985 o 1986, a giudicare dalle foto di famiglia scattate in giardino), non avevo la minima idea di quale fosse il nome dell'orrido invasore, né ce l'avevo fino a dieci minuti fa, ovvero prima di indagare con l'aiuto di Google, ma il suo aspetto è sempre stato ben scolpito nella mia mente, sebbene siano trascorsi oltre vent'anni da quei giorni. Rivederne le foto ora su questa pagina web, è stato un po' come ritrovare un vecchio amico. La testa nera, la macchia scura sulla nuca, la coriacea pelle color prugna del dorso, il ventre giallo decorato di puntini, i peli ispidi... è esattamente l'alieno misterioso dei miei ricordi.
Ma veniamo al dunque.
 
L'orrido invasore (foto scaricata dal web)
Dovete sapere che, quando ero bambino, in giardino avevamo un bellissimo salice piangente. Ricordo ancora sulla pelle dei palmi la sensazione della corteccia ruvida, nell'appoggiarmi al tronco per giocare a nascondino o a chissà che altro. E ricordo distintamente il fruscio della chioma che ondeggiava nelle giornate ventose, così come quello dei miei piedi di bambino che calpestavano le foglie secche a fine estate. Tuttavia, i giorni di gloria di quel salice ebbero fine quando esso divenne preda e dimora della larva di un lepidottero chiamato appunto Cossus cossus o, più comunemente, "Rodilegno". Incapace di difendersi, l'albero venne divorato dall'interno da quelle grosse larve violacee grandi come il dito di una mano, finché mio padre non decise di abbatterlo. E così non avevamo più il nostro bell'albero, ma la storia non si esaurisce qui. Perché se è vero che forse capitò qualche volta che alcuni bruchi intraprendenti si avventurassero fin sul balcone di casa usando come scala le fronde piangenti,  fu dopo l'abbattimento del salice che  il racconto prese una piega che rasentava il film dell'orrore. Come dicevo, mio padre abbatté l'albero e, con l'aiuto del mio fratello maggiore, ne fece legna per il caminetto. Quando la pianta fu fatta a pezzi, iniziò la diaspora dei rodilegno per il giardino e sui muri della casa, ma la situazione peggiorò ulteriormente allorché portammo la legna tagliata nel sottoscala interno alla casa. Dentro quei piccoli cavalli di Troia si nascondevano ancora dei bruchi sopravvissuti, i quali presero a invadere l'abitazione dall'interno. A quel punto divenne una specie di incubo. Ne trovavi veramente ovunque. Tra gli episodi più eclatanti, mia sorella che, avvistandone uno sul pavimento della zona notte lo scambiò per un pastello e quasi lo raccolse, ma soprattutto mio fratello che ne trovò uno - udite! udite! - nella zuppa inglese. Personalmente ne ero anche incuriosito: ricordo che provai a stuzzicarne uno con un cacciavite, e che questo si attaccò aggressivamente alla punta di metallo con le tenaglie. Ricordo che un altro spruzzò un liquido nerastro, forse per difendersi. Ricordo che uno provai ad allevarlo in un barattolo e che lo portai anche a scuola... ma poi ovviamente morì, così come il suo compare che, con sadismo infantile e un po' rancoroso, io e mio fratello bruciammo vivo nell'alcol.
Ma soprattutto, ricordo benissimo l'odore nauseabondo che emanavano quegli orribili - ma pur sempre affascinanti, agli occhi di un bambino appassionato di animali e di mostri - larvoni viola. Un odore che non ci lasciò del tutto finché non avemmo bruciato l'ultimo pezzo di legno. Qualche tempo fa, non so più in che occasione, ricordo di aver sentito un odore simile, ed è subito partito il flashback
Segue piccola galleria commemorativa del povero albero.

1982, io con l'albero alle spalle.

1982, insieme a mia sorella tra le fronde.

1982, con i miei fratelli e l'albero in un pomeriggio d'inverno.
1983, mia madre con la famiglia di Mimi, la mia zia paterna, e la nostra cagna Mirka, al fresco dell'albero in un pomeriggio d'estate.


giovedì 10 marzo 2011

caro marito

Siccome in questo periodo ho la mente occupata da un lungo lavoro che mi prosciuga la voglia e l'ispirazione, ho deciso di riempire lo spazio vuoto che precede il prossimo post riciclandone uno dal mio vecchio blog. Tanto, poco alla volta, intendevo comunque trasferire in questo spazio tutti i post scritti in passato che fossero attinenti ai temi affrontati su Memoria Esterna, quindi tanto vale che lo faccia nel momento del bisogno.
Lo spunto per la pubblicazione di questo post viene inoltre dal ritrovamento di una scatola in cui mio padre aveva raccolto la corrispondenza che mio bisnonno Bartolomeo aveva tenuto dal fronte, durante la prima guerra mondiale, con la moglie Caterina, il fratello Giovanni e i genitori Ottavio e Maddalena.
Mio bisnonno morì in battaglia nel 1916 sul fronte austriaco, lasciando la moglie sola con il figlio di appena due anni, mio nonno Ottavio (Taviu). La coppia è protagonista della foto qui sotto, scattata nel 1911 in occasione del loro matrimonio. Solo mentre digitavo la data, in questo stesso momento, mi sono reso conto che sono passati esattamente cento anni da allora.

Bartolomeo Calorio II e Caterina Sperone il giorno del loro matrimonio, 1911.

Ed ecco la trascrizione della prima lettera, tenera e commovente, che vi propongo. Fu scritta da Caterina poco dopo la partenza del marito.


Canale, 8-3-1916
Caro marito,
dopo sei giorni dalla tua partenza ieri o ricevuto la tua bella lettera che da me era tanto desiderata, credi mi sono molto rallegrata nel riceverla credi gioivo e avevo il cuore che mi batteva e le lacrime agli occhi non potevo più nemmeno dissigillarla, la forza del batticuore che io avevo, ma poi mi sono tranquillizzata un poco, me, e anche i nostri genitori nel sentire che al momento stai bene di salute e che al momento sei ancora fuori dal pericolo.
Caro marito sto a dirti che quella lettera lo gia letta piu di 20 volte tutti i momenti la guardo la leggo e la rileggo la faccio baciare dal nostro caro figlio, e vedendo che e fatto da te mi rallegro un poco il mio cuore, e mi consolo un poco, persino la mamma dice non lai ancora letta abbastanza? ma io non guardo nessuno, io leggendola mi sollevo un poco da quelle pene e mi pare di vederti vicino che mi parli insieme, e sembra che sia arrivata soltanto in quei momenti.
Caro Bartolomeo ti prego quando mi scrivi di non darmi piu del voi perche anche da lontano mi pare di essere sempre tua moglie come prima, e oso a dirti ancora di piu affezionata di prima, intanto scusami se ti dico questo, non e per offenderti ma solamente per unaltra volta che tu faccia piu attenzione quando mi scrivi poi mi sono messa persino a ridere e dicevo per ora comincia a darmi del voi, ma lo so che tu essendo tanto buono con la tua cara moglie non lai fatto con nessuno motivo, e credo che anche tu lo abbi fatto per una facezia per consolarmi un poco, dunque perdonami se ti dico questo e ti prego di non offenderti perche io o detto questo per farti ridere un poco perche mi ai dato del voi.
Intanto ti dico che siamo tutti in salute come speriamo di te anche il nostro Giovanni a scritto che sta bene e non sa ancora niente riguardo alla sua partenza. Caro marito non posso esprimerti il dolore che o provato nella tua partenza dalla stazione di Alba credimi che la strada per ritornare a casa non lo piu vista, e credo che anche tu avrai fatto un viaggio molto addolorato. Dunque fatti coraggio, guarda di sostenerti per bene per non venire ammalato e se hai bisogno dei soldi o qualche altra cosa mandalo a dire che te ne mandiamo, guarda di non stare con pochi soldi in tasca perche delle volte e pericolo mandarti lontano e se non ai dei soldi non puoi sostenerti come ai bisogno. Ti prego di ascoltare i tuoi superiori affinche non ti castigano e prederti guarda riguardo al portafoglio, di non perderlo e che non te lo prendono mettilo sempre nella tasca secreta che ti o fatto. Intanto mandami a dire se la cravatta ti piace perche desidero saperlo. Caro marito mi raccomando te di pregare e di renderti di cuore a qualche Santo o qualche Madonna ove desideri te, alla tua idea, perche ti faccia la grazia di ritornare a casa sano e salvo, e quello che li prometti quando sarai a casa di farlo, ti prego di farlo con devozione. Ti dico questo perche a renderti te, vale piu che a renderti noi da casa. Mi raccomando se ti mandano giu di non fare tanto il curioso e di assicurarti alla tua vita. Ti dico che mentre ti scrivo abbiamo ricevuto la cartolina del mio caro fratello Antonio e siamo stati contenti. Ti prego di scrivermi appena ricevuto la lettera e di scrivermi sovente sovente perche io preferisco una tua notizia che tutte le cose di questo mondo.
Addio ricevi tanti saluti dal figlio di Sansun che si trova anche lui vicino a Cividale e presto a detto che ti scrive, e poi ricevi tanti saluti da tutta la nostra famiglia e la famiglia sperone e barba Garun e la zia Carolina e barba Minot e la zia che anno anche loro ricevuto la tua cartolina e ora sono rimasti amici il nostro padre con lo zio Domenico, vengono sempre a casa nostra a veliare. Ricevi ancora tanti saluti dalla nostra famiglia e ricevi tanti saluti e baci da chi sempre ti ricorda tua Aff.ma moglie e un bacio dal tuo e nostro figlio Ottavio che anche lui prega per te.
Catterina

A margine ci sono due note:

Quando scrivete mandate sempre notizie uno dell'altro, ricevi baci dalla tua moglie e figlio, addio

L'indirizzo del nostro Giovanni
Calorio Giovanni
3a Artiglieria di Montagna 51a Batteria forte S. Giuliano Genova

venerdì 28 gennaio 2011

i ricordi che non ho

Esistono ricordi che non sono incisi direttamente nella nostra esperienza personale, ma entrano a farvi parte attraverso i racconti, i dati, i documenti, le immagini che abbiamo ereditato e assorbito da coloro che sono venuti prima di noi. Io ho sempre avuto un rapporto ai limiti dell'idiosincrasia con la Storia in senso generale (ho enormi difficoltà a comporre gli eventi del passato in una visione d'insieme cronologicamente strutturata, e le date scivolano via dalla mia memoria come un insieme di cifre prive di senso), ma in compenso nutro un grande interesse e attaccamento per la Storia "privata" della mia famiglia e del contesto geografico e culturale in cui sono nato. Ho la fortuna di disporre di un ricco bagaglio di fotografie dei miei antenati e, soprattutto, di un  ricco e dettagliato albero genealogico lasciatomi da mio padre, indispensabile a conferire a tali fotografie un senso e una collocazione. Proprio di recente ho rinvenuto una scatola di fotografie mai viste prima appartenute a mia nonna, e sollevarne il coperchio è stato per me più emozionante che aprire lo scrigno del più ricco dei tesori. Il legame di sangue che percepisco intercorrere tra me e i protagonisti di tali fotografie, scattate per lo più in epoche delle quali non ho memoria perché non ne facevo parte, mi fornisce uno spunto per donare a questo blog nuove e stimolanti sfaccettature.

Per un motivo o per l'altro, tutte le fotografie che ho visionato consultando e perfezionando l'opera di mio padre nei ritagli di tempo sono degne di interesse. Alcune testimoniano usanze ora decadute, altre angoli del mio paese che non ci sono più, altre ancora suggeriscono l'origine di tratti somatici emersi successivamente nel patrimonio genetico mio, dei miei genitori, dei miei fratelli. Alcune semplicemente mostrano lati a noi ignoti di persone che abbiamo conosciuto in vita. Ciascuna foto, forse anche in virtù del loro numero relativamente esiguo, è di per sé interessante, ma ve ne sono alcune che mi hanno colpito più di altre, perché cariche di significati più intensi, talvolta drammatici. Una di queste è l'istantanea che vedete qui sotto.

 L'avevo già vista distrattamente altre volte in passato, e le uniche due cose che avevo notato sono il fatto che fosse stata scattata in piazza Vittorio Veneto a Torino,  in corrispondenza del ponte della Gran Madre, e il fatto che una delle tre donne che vi compaiono fosse mia nonna Rina da giovane. Ho dunque sempre pensato che fosse stata scattata nel corso di una lieta gita nel capoluogo della regione.
Ieri mi è tuttavia capitato di leggere la didascalia che mio padre aveva scritto su un file a parte, quando ha passato allo scanner gran parte di queste foto. La riporto per intero:

Raimondo Caterina, Raimondo Margherita e Rissone Maria.
Questa foto è stata scattata nel 1941 a Torino, dove Margherita, affetta da linfoma, era stata portata per una visita medica.

Raimondo Caterina era mia nonna Rina, ovvero la donna sulla sinistra. Rissone Maria, la signora sulla destra, da nubile faceva Mulasso di cognome, ed era sorella di mia bisnonna e quindi zia di mia nonna. Le cosa per me più sconvolgente è tuttavia la presenza di Margherita, sorella minore di mia nonna: la data della fotografia (scattata, tra l'altro, in tempo di guerra) e il dettaglio sul motivo del viaggio ribaltano completamente il senso dell'immagine, generando istantaneamente rimandi con alcuni ricordi della mia infanzia, inducendo spontanei calcoli cronologici e l'esigenza di ulteriori informazioni, ma soprattutto costringendo l'occhio a soffermarsi sull'espressione della ragazza, sul suo sguardo serio rivolto all'obiettivo, sulla sua triste bellezza.

La mia prozia Margherita, nata nel 1926 a Canale d'Alba, morì nel 1942 all'età di sedici anni, a causa di quello stesso linfoma. La fotografia fu scattata un anno prima della sua morte, e io non oso immaginare quali pensieri si agitassero nella sua testa nel momento in cui l'ignoto fotografo premette il pulsante. Non oso immaginare il dolore provato dai suoi genitori, per me solo volti all'interno di un archivio fotogratico e protagonisti di alcuni racconti dell'infanzia, e soprattutto da mia nonna, che un giorno, quando ero bambino, mi confessò di detestare il Natale perché proprio in quei giorni le era stata portata via la sorellina. Di mia prozia Margherita non ho ricordi di prima mano, come non ne aveva mio padre, nato due anni dopo la sua morte. So che mia nonna diede il suo nome alla sua seconda figlia, mia zia, e ricordo il suo ritratto in una cornice ovale di legno scuro, appeso accanto a quello di mio bisnonno Giacomo nella stanza in cui ora gioca e dorme mio figlio Pietro. Tutto il resto sono ricordi che non ho di una prozia che non ho mai avuto.