sabato 20 novembre 2010

una giornata al mare

I miei ricordi legati al mare raramente risalgono all'infanzia. Mi vengono in mente episodi che appartengono agli anni del liceo, altri collocati ai tempi dell'università, ma il mare vissuto da bambino per me è un ricordo abbastanza indistinto, e faccio molta fatica a pescare dal caos qualcosa di definito. Le uniche cose che riesco a mettere a fuoco sono delle caramelle gommose a forma di orsetto, dei braccioli arancioni, io che resto con mio nonno Berto mentre mia madre nuota in lontananza. Ma si tratta di cocci, più che di ricordi. Questo perché mio padre prediligeva la montagna, e le gite al mare erano per me una rarità, specialmente dalle elementari in avanti.
La giornata del mare che dà il titolo a questo post, infatti, riguarda tempi ben più recenti.
Qualche giorno fa sono stato a Varazze con Silvia e i bimbi, e la domenica abbiamo pranzato fuori. Io ho ordinato dei totani alla griglia, e più tardi, mentre immerso nella desolazione invernale della spiaggia che affianca la "casa araba" sentivo ancora in bocca il loro sapore, mi è tornato in mente quel giorno di ormai quasi tre anni fa in cui con i miei genitori, Silvia e un Pietro ancora piccolo, trascorsi una fugace giornata al mare.
Anche quel giorno era inverno (si era intorno a febbraio, credo) e c'era brutto tempo, e anche quel giorno ordinai, in un diverso ristorante situato sul lungomare di Varazze, totani alla griglia. Mio padre ordinò due bottiglie di un qualche vino bianco ligure, e le consumammo quasi interamente io e lui. A dire la verità, non compresi bene perché mai mio padre avesse ordinato la seconda bottiglia (bevevamo solo in tre perché Silvia era in allattamento, quindi una bottiglia sarebbe stata sufficiente), e soprattutto perché volle finirla a tutti i costi riempendomi il bicchiere fino all'orlo a fine pasto, ma la sensazione di quel momento era un po' quella della canzone di Paolo Conte, nel punto in cui il cantautore astigiano recita che "il vino bianco è fresco e va giù bene come questo cielo grande su di noi". Anche se il cielo di Wanda io me lo immagino azzurro, mentre dalla finestra di quel locale dai toni verde scuro si affacciavano soltanto nuvole basse e plumbee.
Quel pomeriggio non facemmo molto a causa del brutto tempo (a dispetto del quale mio padre ci offrì, come fossimo dei bambini, un ottimo gelato), ma ricordo con piacere quella lieve sensazione di ebrezza ed euforia che ha il potere miracoloso di far sentire vicine le persone. In fin dei conti, non mi è capitato molto spesso di ritrovarmi brillo insieme a mio padre, ma colloco quelle poche occasioni tra i momenti belli della mia vita.

martedì 9 novembre 2010

giocobimbi

Com'è naturale che sia, in ogni famiglia si forma, nel corso di decenni di vita comune, una sorta di codice esclusivo immediatamente riconoscibile dai suoi membri e di meno facile comprensione agli orecchi esterni: un "lessico famigliare", per definirlo prendendo a prestito il titolo del celebre romanzo di Natalia Ginzburg. In alcuni casi, a causa del carattere di refrattarietà a mutamenti e correzioni insito nel suo essere radicato nel profondo, tale codice finisce per essere veicolatore di una memoria affettiva e privata. Esso può  infatti mantenere intatto il proprio valore nel linguaggio presente, ma poiché le sue radici affondano quasi sempre in tempi assai più lontani, finisce per rappresentare una sorta di  lungo strascico del passato, una memoria ancora viva e pulsante. In grazia di questa sua virtù, il lessico famigliare di casa Calorio entra di diritto nel novero degli argomenti di questo blog.

Nell'ambito della mia famiglia, il termine forse più peculiare in questo senso è il neologismo "giocobimbi". Esso indica un locale della casa dei miei genitori che spesso, di fronte ad altre persone, mi sono a fatica sforzato di chiamare correttamente "tavernetta" o "cantinetta", quale effettivamente è: ogni volta che mi trovo costretto a usare termini del genere mi sembra di violare qualcosa, di forzare la vera natura, invisibile e puramente emotiva, di quel luogo. Ma soprattutto, mi ritrovo ad applicare una vera e propria "traduzione in italiano" a qualcosa che dentro di me corrisponde a una voce differente.
Probabilmente nelle intenzioni iniziali dei miei genitori quella stanza avrebbe dovuto essere adibita a chissà quali giochi di noi bambini, e ho il sospetto che sia stata l'etichettatrice con cui mio fratello aveva siglato tutte le porte della casa a stigmatizzare così fortemente il locale come "il giocobimbi". Fatto sta che, a dispetto del nome sopravvissuto fino a oggi, non ricordo di aver giocato abitualmente lì dentro, e quel locale situato al piano terra  ha assunto nel corso degli anni altre funzioni più consone alla sua natura.
L'unico giocattolo di cui ricordi la presenza all'interno di quella stanza era una primitiva console che consentiva di giocare a Pong e a qualche altro rudimentale videogame su un televisore in bianco e nero (i miei ricordi al riguardo sono parecchio annebbiati: forse era anche dotata di pistola? Forse c'è stata più di una console? In ogni caso probabilmente era una di queste). Mi resta poi una vaga impressione di giornate estive nelle quali il  giocobimbi forniva un fresco riparo dalla calura estiva... un luogo in cui mangiare una fetta d'anguria dopo aver giocato in  giardino, dentro a una tenda indiana vinta con i punti delle "Girelle" Motta. Ma più che altro, associo il giocobimbi alle riunioni serali degli amici dei miei genitori al calore di una stufetta di ghisa che ora ho nella mia cucina; alle prove del coro gospel in cui cantavano mio padre e mia sorella; e soprattutto a dei pomeriggi d'inverno in compagnia delle mie due nonne: nonna Gemma che stirava nella stanza adiacente, tra i vapori del ferro da stiro dal caratteristico odore; nonna Rina che sedeva con in mano ago, filo e quel curioso uovo di legno, a rammendare calzini.
A fare cose che non riesco a ricordare mentre loro due chiacchieravano intente nelle loro mansioni. Certo, probabilmente si trattava di giochi.