Il 2011 è stato un anno lungo e pieno di cose, e ha segnato per la nostra famigliola una partenza che per me rappresenta, allo stesso tempo, un ritorno. Qualche settimana fa, infatti, abbiamo traslocato, e ora iniziamo il 2012 in un luogo che, per quanto ugualmente familiare, non è l’appartamento che ci eravamo abituati a considerare casa nostra e che Pietro chiamava “casacanale”. Io e Silvia abbiamo vissuto in quell’appartamento per sette anni e mezzo (pressoché esatti, se si esclude la breve e lieta parentesi torinese), ovvero a partire dal giorno successivo al nostro matrimonio. L’abbiamo fatto “nostro” giorno dopo giorno, evento dopo evento, ricordo dopo ricordo. In esso abbiamo vissuto importanti metamorfosi: il passaggio, dopo circa sei anni di fidanzamento, alla quotidianità di una relazione di coppia sotto lo stesso tetto; quello a una realtà lavorativa abbastanza stabile nel mio caso (quando ci siamo insediati io avevo appena iniziato il mio attuale lavoro) e viceversa variegata e instabile, ma non priva di momenti gratificanti e memorabili, nel caso di Silvia; infine, dopo qualche anno, il passaggio allo status di genitori, che di tutte le metamorfosi è stata quella più radicale e significativa.
Quell’appartamento è stato dunque teatro di momenti più che importanti, in un certo senso quasi ingombranti al punto tale da divorare spazio ai ricordi che già giacevano, prima del nostro arrivo, nella polvere annidata tra quelle mura, alla penombra di quelle tapparelle. Sì, perché quelle stanze avevano già ospitato molti altri ricordi appartenenti alla mia infanzia e alla mia adolescenza, essendo state abitate dai miei nonni paterni a partire, credo, dalla metà degli anni Settanta. Eppure, quando un paio di settimane fa ho lasciato quel luogo, mi riusciva difficile vederlo come lo scenario delle serate trascorse dai miei nonni, quando mi addormentavo, mentre mia nonna Rina recitava il rosario, in una brandina accanto a un letto matrimoniale scuro, convesso e insormontabile; dell’odore umido e allo stesso tempo ospitale di quella cucina, con mio nonno Tavio seduto, dopo cena, su una poltrona di pelle a guardare la televisione masticando un blocco di cioccolato fondente preso da una vetrinetta del salotto e tagliato con il coltello del parmigiano; del suono delle unghie del bassotto nero Dick che correva agitato sulle piastrelle; della foto di mia bisnonna appoggiata su un comò di quella che poi è diventata la stanza di Pietro – in quella stessa stanza c’era un divano-letto contro le cui sbarre mi ero sbucciato un piede procurandomi una piccola cicatrice che porto ancora oggi, e in quello stesso letto andavo a dormire ogni tanto, durante gli anni del liceo, per assistere (si fa per dire) mio nonno pochi mesi prima della sua morte, mentre mia nonna era in ospedale per via dell’ictus; della sedia in cucina accanto al frigorifero su cui, anni prima, mio nonno, seduto, mi afferrava stringendomi a sé e dicendomi: “Ti spremo come un limone!”; dello scrittoio con il calamaio e la penna d’oca in salotto, e della sedia a dondolo che si affacciava sul balcone, sotto un quadro dipinto da mia nonna e nei pressi del grande e imponente ritratto di mio bisnonno Bartolomeo in uniforme; dei bicchieri di latta, delle tende ricamate, dell’armadio color turchese decorato da mia nonna nel corridoio d’ingresso, del suono stonato e vibrante dell’orologio a pendolo, delle “gallette digestive” e del fruscio della plastica marrone che le conteneva, delle fiabe popolari di mia nonna e del loro sapore macabro, della costruzione che ospitava il “peso” nella piazza sottostante. Ebbene, tutti questi ricordi, che ora rievoco con un piccolo sforzo volontario della mia memoria, si erano come ritirati nell’ombra mentre camminavo in questi anni per quelle stesse stanze. Essi hanno lasciato spazio alla spensieratezza dei primi anni di matrimonio, a giorni nei quali risuonavano un sacco le canzoni dei Beatles e di Rino Gaetano; alle emozioni, mai provate fino ad allora, dei giorni della prima gravidanza di Silvia, e successivamente a una valanga di ricordi, altrettanto nuovi, di Pietro piccolino, del suo sviluppo e della nostra vita a tre; a innumerevoli manicaretti, serate con gli amici, giornate trascorse a lavorare bevendo tè, a CD sperimentati per la prima volta tra quelle mura; a notti insonni e lacrime versate su quel divano verde muschio e sul tavolo di pietra rosa della cucina, nascondendomi dietro una confezione di cereali per non farmi vedere da mio figlio; e infine ai primi segnali notturni di una nuova nascita, a una carezza a Pietro che dorme accanto alla parete verde scuro della sua stanza, al frastuono del ferro tremolante del portone del garage nella notte silenziosa, per poi riunirci sotto quel tetto, questa volta in quattro con l’arrivo di Gemma, qualche giorno dopo. A questo e tanto, tantissimo altro ancora, mi viene ora da collegare automaticamente l’appartamento di Piazza Marconi, e mi chiedo se, tra sette anni e mezzo, lo stesso meccanismo di sostituzione si attiverà nella casa che ci ospita ora e di cui avrò modo di parlare nel prossimo post.
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mercoledì 4 gennaio 2012
partenze e ritorni (prima parte)
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domenica 28 agosto 2011
luciano
La scorsa notte Luciano se ne è andato. Luciano era il marito di mia madrina Marinella, cugina di mia madre. Era di Terni, lavorava per le Ferrovie dello Stato. Era un uomo alto, brillante, simpatico. Aveva un'aria buona. Il suo accento umbro spiccava nei ritrovi di famiglia.
Il suo calvario iniziò all'incirca tre anni fa, all'epoca in cui suo suocero, mio prozio Dorino (Binello Teodoro, fratello di mio nonno Berto), moriva a sua volta di cancro e si ricongiungeva alla moglie Elia. Marinella e Luciano scoprirono, credo, nello stesso periodo, di avere entrambi un tumore, e iniziarono insieme la loro personale battaglia con una forza, un coraggio e una quantità di risorse tali che mi hanno sempre lasciato stupefatto e ammirato. E non lo dico con spirito retorico: ce l'hanno davvero messa tutta.
Poi mia madrina l'ha preceduto nell'aprile dell'anno scorso, ma Luciano non ha smesso di lottare. Ha provato diverse cure, diverse cliniche, è persino andato nel fitto della giungla cubana a procurarsi, inutilmente, il veleno dello scorpione rosso. L'ultima volta che l'ho visto è stata questa primavera, quando è venuto su a Canale per la messa di anniversario della morte di Marinella. Abbiamo pranzato insieme da mia madre, e io ho pensato che forse era la prima volta che passavo così tanto tempo con lui, che parlavamo così a lungo. In fondo, in passato l'avevo visto quasi sempre di sfuggita quando veniva su con Marinella a cenare con i miei per capodanno o festività simili. Al di là dei sintomi della malattia e delle cure, quella volta mi era sembrato relativamente in forma, per cui ho anche pensato che ci sarebbero state altre occasioni.
Invece no, e ora che se ne è andato anche Luciano, penso con tristezza al fatto che tutto un ramo della mia famiglia, quel ramo dei Binello che partiva da mio prozio Dorino, è stato reciso per sempre e non ne rimane traccia vivente. Trasferitosi anch'egli a Terni dopo esser rimasto vedovo, Dorino mi chiese più volte di andarli a trovarle, e io mi ripromisi più volte di farlo. Ma poi, tra una cosa e l'altra, ho sempre rimandato. Ora le occasioni sono sfumate e restano anche ben pochi ricordi. Non mi rimane che andare a dare un goccio d'acqua ai fiori ogni tanto, come Luciano mi aveva scherzosamente chiesto questa primavera.
domenica 21 agosto 2011
patrimonio
Ieri sera ho finito Patrimonio di Philip Roth, di cui, ammetto, finora avevo solo letto Lamento di Portnoy e Pastorale americana. Mi era già venuta voglia di leggerlo tempo fa, dopo aver visto questo post scritto da un mio amico, ma ho deciso di affrontarlo solo ora per creare la giusta distanza rispetto alla morte di mio padre. Il libro parla infatti del rapporto tra l'autore e il padre malato di cancro, e degli ultimi mesi di vita di quest'ultimo. Al di là dell'effettivo valore del libro, indubbiamente un capolavoro, vi ho ritrovato molte delle sensazioni che provai nel corso della terribile progressione della malattia. Molte di quelle riflessioni, di quelle lacrime, di quei pugni nello stomaco, di quel senso di impotenza di fronte a un male così spietato.
Un passaggio in particolare descrive perfettamente uno dei vari stati d'animo che si alternavano in me in quei giorni. Uno stato d'animo che, in fin dei conti, nei mesi successivi mi ha spinto a creare questo blog. Quindi, smentendomi in parte rispetto al mio ultimo post, lascio che siano le parole di Roth a rievocare quei momenti nei quali restavo seduto in silenzio sul suo letto a fissargli le mani:
"Lo osservai intensamente, come per la prima volta, e continuai ad aspettare che nella testa mi si formassero altri pensieri. Ma non ne arrivarono più, nessun altro pensiero tranne questo: che dovevo fissarmelo nella memoria per quando fosse morto. Forse gli avrebbe impedito di sbiadire e diventare etereo col passare degli anni. «Devo ricordare con precisione, - mi dissi, - ricordare ogni cosa con precisione, in modo che quando se ne sarà andato io possa ricreare il padre che ha creato me». Non devi dimenticare nulla."
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