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sabato 23 luglio 2011

uno scrigno di sorprese 3/3: l'aurea

 L'ultima sorpresa uscita fuori dalla scatola di fotografie di mia nonna Rina è naturalmente costituita da quelle che ritraggono mio padre, per poche che siano (tutte le altre se le era già prese lui in passato, per passarle allo scanner e catalogarle). Mio padre Bartolomeo compariva infatti nel servizio sul funerale di mio bisnonno, in una foto del matrimonio di mia zia Margherita (Mimi), e infine in queste due foto scattate nella seconda metà degli anni Sessanta. Sul retro di una di esse mia nonna aveva scritto, con una grafia dall'aspetto ormai antico:

 Dott. Nino - 1° anno l'aureato in medicina


Traspare in questa didascalia tutto l'orgoglio di mia nonna per i risultati conseguiti dal figlio, probabilmente il primo laureato, in un'epoca in cui la laurea non si dava ancora quasi per scontata, di una famiglia di commercianti di stoffe e carbone, di falegnami e filandere.
Per il resto, non ho idea di dove sia stata scattata (immagino in un ristorante di Torino), né di chi siano le persone ritratte insieme a lui, salvo l'uomo con gli occhiali che mia madre dice essere un medico suo compagno d'università.
Sugli anni universitari di mio padre, purtroppo, non so molto, ma questo è un tassello in più, e per ovvie ragioni è ai miei occhi la più preziosa delle sorprese.

lunedì 11 luglio 2011

uno scrigno di sorprese 2/3: il funerale di nonno giacomo

La scatola di fotografie di cui ho scritto nell'ultimo post conteneva un'altra sorpresa, ancora più inattesa. In un piccolo album dalla copertina nera, era infatti racchiuso un sintetico servizio fotografico del funerale di mio bisnonno Giacomo (Giacomo Raimondo), padre di mia nonna Rina. Realizzato da un fotografo professionista (sull'etichetta è indicato Servizi Fotografici A. Rafele, Piazza G. Grosso 2, Cambiano) proprio come si usa tutt'oggi per i matrimoni, testimonia un'usanza adesso perduta e per me inimmaginabile.
La selezione di fotografie che espongo qui sotto fu scattata il 27 aprile del 1957, e mostra il corteo che, dall'abitazione di mio bisnonno (il piccolo palazzo giallo in piazza Marconi che vedo oggi dalla finestra della mia cucina e che attualmente ospita un'erboristeria) prosegue fino alla chiesa parrocchiale. Alla testa del corteo si riconoscono la moglie Caterina Mulasso, i miei nonni, e infine mio padre e mia zia Margherita ancora bambini.
Sono per me fotografie molto preziose, per diversi motivi. Innazitutto, esse costituiscono una piccola testimonianza visiva della Canale d'allora: vi si intravedono infatti alcune abitazioni non ancora, o almeno solo in parte, rimpiazzate da orrendi palazzi piastrellati anni Sessanta-Settanta; in Via Roma (angolo Via Garibaldi) si nota l'insegna di un negozio di cappelli e calzature (Barbisio), mentre sull'altro lato compare un manifesto d'epoca che pubblicizza la tintura per indumenti "Super Iride"; infine, è evidente la diversa conformazione del piazzale della Parrocchia di S.Vittore (stando a quanto dice mia madre, la casa che si vede sullo sfondo nell'ultima foto, al posto della quale ora c'è la cartoleria Marchisio, apparteneva a un sarto di nome Arturo, amico di mio nonno Berto).
Ciò che tuttavia emerge con maggiore evidenza da tali fotografie sono i radicali cambiamenti, verificatisi nell'arco di poco più di cinquant'anni (ma anche molto meno, perché nei miei trent'anni di vita non ho alcun ricordo del genere) negli usi e nei costumi della popolazione canalese: la relativa imponenza del corteo, preceduto da bambini, suore, frati e donne col velo, così come l'importanza stessa attribuita al funerale, tale da giustificare addirittura un servizio fotografico, sono indicatori di quanto diversamente fossero concepite le dimensioni religiosa e comunitaria, e di quanto maggiore rispetto a oggi fosse il ruolo che esse esercitavano nella vita della collettività paesana.
Per finire, queste fotografie raffigurano un evento importante della storia della mia famiglia, mostrandomi com'erano allora i protagonisti che lo subirono. Io non conobbi mai mio bisnonno Giacomo, che morì di tumore alla prostata vent'anni prima della mia nascita, ma ne presi il nome e ne sentii spesso parlare da mia nonna e da mio padre, che lo descrivevano come un uomo forte, amato e rispettato. Di suo sopravvive oggi il ciabòt che egli stesso costruì e che uso ancora oggi.
Scrive di lui mio padre, in una nota dell'albero genealogico:

Uomo molto energico e di bell'aspetto. Iniziò l'attività di maniscalco.
Poi passò al commercio di carbone e di tualete. Molto amato dai
compaesani. Perse una figlia dell'età di 16 anni per linfoma.









giovedì 24 marzo 2011

il salice piangente e la storica invasione

1982, io abbracciato al salice.
Come accade per le musiche, capita che alcuni odori accompagnino esperienze particolarmente intense della nostra vita e che pertanto, a distanza di anni, sia possibile evocarne con la mente un ricordo, per quanto vago e difficile da definire, direttamente nelle nostre narici. Alcuni di questi odori, se incontrati a distanza di anni, risvegliano memorie piacevoli (nel mio caso, penso al profumo che aleggiava nel laboratorio della panetteria Scaravaglio quando il panettiere mi permetteva di guardarlo lavorare mentre mia madre faceva la spesa nel negozio adiacente). Talvolta, tuttavia, accade che certi odori rimandino a esperienze meno simpatiche.
Un odore che non sento ormai da anni ma che saprei disegnare perfettamente a memoria se solo gli odori si potessero rappresentare graficamente, è quello dolciastro che aleggiava a casa dei miei genitori durante la storica invasione del Cossus cossus, un episodio entrato ormai  a far parte della mitologia privata di casa Calorio. Allora, ai tempi delle scuole elementari (credo fosse il 1985 o 1986, a giudicare dalle foto di famiglia scattate in giardino), non avevo la minima idea di quale fosse il nome dell'orrido invasore, né ce l'avevo fino a dieci minuti fa, ovvero prima di indagare con l'aiuto di Google, ma il suo aspetto è sempre stato ben scolpito nella mia mente, sebbene siano trascorsi oltre vent'anni da quei giorni. Rivederne le foto ora su questa pagina web, è stato un po' come ritrovare un vecchio amico. La testa nera, la macchia scura sulla nuca, la coriacea pelle color prugna del dorso, il ventre giallo decorato di puntini, i peli ispidi... è esattamente l'alieno misterioso dei miei ricordi.
Ma veniamo al dunque.
 
L'orrido invasore (foto scaricata dal web)
Dovete sapere che, quando ero bambino, in giardino avevamo un bellissimo salice piangente. Ricordo ancora sulla pelle dei palmi la sensazione della corteccia ruvida, nell'appoggiarmi al tronco per giocare a nascondino o a chissà che altro. E ricordo distintamente il fruscio della chioma che ondeggiava nelle giornate ventose, così come quello dei miei piedi di bambino che calpestavano le foglie secche a fine estate. Tuttavia, i giorni di gloria di quel salice ebbero fine quando esso divenne preda e dimora della larva di un lepidottero chiamato appunto Cossus cossus o, più comunemente, "Rodilegno". Incapace di difendersi, l'albero venne divorato dall'interno da quelle grosse larve violacee grandi come il dito di una mano, finché mio padre non decise di abbatterlo. E così non avevamo più il nostro bell'albero, ma la storia non si esaurisce qui. Perché se è vero che forse capitò qualche volta che alcuni bruchi intraprendenti si avventurassero fin sul balcone di casa usando come scala le fronde piangenti,  fu dopo l'abbattimento del salice che  il racconto prese una piega che rasentava il film dell'orrore. Come dicevo, mio padre abbatté l'albero e, con l'aiuto del mio fratello maggiore, ne fece legna per il caminetto. Quando la pianta fu fatta a pezzi, iniziò la diaspora dei rodilegno per il giardino e sui muri della casa, ma la situazione peggiorò ulteriormente allorché portammo la legna tagliata nel sottoscala interno alla casa. Dentro quei piccoli cavalli di Troia si nascondevano ancora dei bruchi sopravvissuti, i quali presero a invadere l'abitazione dall'interno. A quel punto divenne una specie di incubo. Ne trovavi veramente ovunque. Tra gli episodi più eclatanti, mia sorella che, avvistandone uno sul pavimento della zona notte lo scambiò per un pastello e quasi lo raccolse, ma soprattutto mio fratello che ne trovò uno - udite! udite! - nella zuppa inglese. Personalmente ne ero anche incuriosito: ricordo che provai a stuzzicarne uno con un cacciavite, e che questo si attaccò aggressivamente alla punta di metallo con le tenaglie. Ricordo che un altro spruzzò un liquido nerastro, forse per difendersi. Ricordo che uno provai ad allevarlo in un barattolo e che lo portai anche a scuola... ma poi ovviamente morì, così come il suo compare che, con sadismo infantile e un po' rancoroso, io e mio fratello bruciammo vivo nell'alcol.
Ma soprattutto, ricordo benissimo l'odore nauseabondo che emanavano quegli orribili - ma pur sempre affascinanti, agli occhi di un bambino appassionato di animali e di mostri - larvoni viola. Un odore che non ci lasciò del tutto finché non avemmo bruciato l'ultimo pezzo di legno. Qualche tempo fa, non so più in che occasione, ricordo di aver sentito un odore simile, ed è subito partito il flashback
Segue piccola galleria commemorativa del povero albero.

1982, io con l'albero alle spalle.

1982, insieme a mia sorella tra le fronde.

1982, con i miei fratelli e l'albero in un pomeriggio d'inverno.
1983, mia madre con la famiglia di Mimi, la mia zia paterna, e la nostra cagna Mirka, al fresco dell'albero in un pomeriggio d'estate.