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mercoledì 22 febbraio 2012

partenze e ritorni (seconda parte)

La casa che ci ospita ora, dicevo l'ultima volta, è la casa in cui sono nato e ho vissuto per circa ventisei anni della mia vita, un arco di tempo decisamente maggiore di quello trascorso nell'alloggio di piazza Marconi dopo il matrimonio. Sarebbe quindi impossibile elencare tutti i ricordi che essa mi riporta alla mente, perché se nel caso dell'appartamento dei miei nonni essi erano stati setacciati dal tempo e delimitati dalla loro collocazione in un passato relativamente remoto e conclusosi per sempre, qui essi si inseriscono, in quantità spropositata, in un flusso praticamente continuo che scaturisce dai miei primi vagiti e scorre per tutta la mia infanzia, la mia adolescenza, la mia giovinezza, senza arrestarsi nemmeno negli anni della mia assenza (non solo perché facevo spesso visita ai miei genitori, ma anche perché già da qualche anno lavoravo qui in mansarda, durante il giorno).
In questo caso, almeno per il momento, il processo del ricordo non rappresenta uno sforzo cosciente e volontario, bensì un germogliare spontaneo, fisiologico, organico. Talvolta piacevole, talvolta doloroso (e la parte dolente riguarda soprattutto le stanze nelle quali il ricordo si fa più crudo e manifesto: quelle che più sono rimaste simili, nell'arredamento, a com'erano fino a un paio d'anni fa). Onestamente, prima di tornare qui, temevo che sarebbe stata troppo dura convivere coi brutti ricordi, ma ora che sono trascorsi più di due mesi dal nostro insediamento, devo dire che è superiore la gioia di vedere queste mura riempirsi nuovamente di vita e nuovi ricordi. La mancanza resta, ma il triste e vertiginoso senso di vuoto che mi è capitato di provare le volte che, lo scorso anno, mi sono ritrovato solo in tutta la casa, viene ora riempito dalla presenza di Pietro e Gemma.
Quanto ai piacevoli ricordi di un passato assai più remoto, essi fioccano di continuo mentre poco per volta sistemo oggetti nel solaio, nella mansarda, in cantina. In questi ultimi mesi ne ho rinvenuti di piccoli e grandi, talvolta mai visti (un quaderno contenente la contabilità dei miei nonni paterni, la cartella di mia madre con i suoi quaderni di bambina...), talvolta dimenticati o creduti perduti. Ho addirittura esplorato anfratti nei quali forse non mi ero mai addentrato fino in fondo in oltre trent'anni di frequentazione di questi ambienti, come il lungo ripostiglio della mansarda il cui ingresso è rimasto ostruito da varie cianfrusaglie sin dai primi anni Ottanta. Ecco, forse è proprio questo il punto: sto imparando a vivere consciamente questo spazio, con curiosità. A prenderne consapevolezza quando finora l'avevo sempre vissuto in maniera passiva.

mercoledì 4 gennaio 2012

partenze e ritorni (prima parte)

Il 2011 è stato un anno lungo e pieno di cose, e ha segnato per la nostra famigliola una partenza che per me rappresenta, allo stesso tempo, un ritorno. Qualche settimana fa, infatti, abbiamo traslocato, e ora iniziamo il 2012 in un luogo che, per quanto ugualmente familiare, non è l’appartamento che ci eravamo abituati a considerare casa nostra e che Pietro chiamava “casacanale”. Io e Silvia abbiamo vissuto in quell’appartamento per sette anni e mezzo (pressoché esatti, se si esclude la breve e lieta parentesi torinese), ovvero a partire dal giorno successivo al nostro matrimonio. L’abbiamo fatto “nostro” giorno dopo giorno, evento dopo evento, ricordo dopo ricordo. In esso abbiamo vissuto importanti metamorfosi: il passaggio, dopo circa sei anni di fidanzamento, alla quotidianità di una relazione di coppia sotto lo stesso tetto; quello a una realtà lavorativa abbastanza stabile nel mio caso (quando ci siamo insediati io avevo appena iniziato il mio attuale lavoro) e viceversa variegata e instabile, ma non priva di momenti gratificanti e memorabili, nel caso di Silvia; infine, dopo qualche anno, il passaggio allo status di genitori, che di tutte le metamorfosi è stata quella più radicale e significativa.
Quell’appartamento è stato dunque teatro di momenti più che importanti, in un certo senso quasi ingombranti al punto tale da divorare spazio ai ricordi che già giacevano, prima del nostro arrivo, nella polvere annidata tra quelle mura, alla penombra di quelle tapparelle. Sì, perché quelle stanze avevano già ospitato molti altri ricordi appartenenti alla mia infanzia e alla mia adolescenza, essendo state abitate dai miei nonni paterni a partire, credo, dalla metà degli anni Settanta. Eppure, quando un paio di settimane fa ho lasciato quel luogo, mi riusciva difficile vederlo come lo scenario delle serate trascorse dai miei nonni, quando mi addormentavo, mentre mia nonna Rina recitava il rosario, in una brandina accanto a un letto matrimoniale scuro, convesso e insormontabile; dell’odore umido e allo stesso tempo ospitale di quella cucina, con mio nonno Tavio seduto, dopo cena, su una poltrona di pelle a guardare la televisione masticando un blocco di cioccolato fondente preso da una vetrinetta del salotto e tagliato con il coltello del parmigiano; del suono delle unghie del bassotto nero Dick che correva agitato sulle piastrelle; della foto di mia bisnonna appoggiata su un comò di quella che poi è diventata la stanza di Pietro – in quella stessa stanza c’era un divano-letto contro le cui sbarre mi ero sbucciato un piede procurandomi una piccola cicatrice che porto ancora oggi, e in quello stesso letto andavo a dormire ogni tanto, durante gli anni del liceo, per assistere (si fa per dire) mio nonno pochi mesi prima della sua morte, mentre mia nonna era in ospedale per via dell’ictus; della sedia in cucina accanto al frigorifero su cui, anni prima, mio nonno, seduto, mi afferrava stringendomi a sé e dicendomi: “Ti spremo come un limone!”; dello scrittoio con il calamaio e la penna d’oca in salotto, e della sedia a dondolo che si affacciava sul balcone, sotto un quadro dipinto da mia nonna e nei pressi del grande e imponente ritratto di mio bisnonno Bartolomeo in uniforme; dei bicchieri di latta, delle tende ricamate, dell’armadio color turchese decorato da mia nonna nel corridoio d’ingresso, del suono stonato e vibrante dell’orologio a pendolo, delle “gallette digestive” e del fruscio della plastica marrone che le conteneva, delle fiabe popolari di mia nonna e del loro sapore macabro, della costruzione che ospitava il “peso” nella piazza sottostante. Ebbene, tutti questi ricordi, che ora rievoco con un piccolo sforzo volontario della mia memoria, si erano come ritirati nell’ombra mentre camminavo in questi anni per quelle stesse stanze. Essi hanno lasciato spazio alla spensieratezza dei primi anni di matrimonio, a giorni nei quali risuonavano un sacco le canzoni dei Beatles e di Rino Gaetano; alle emozioni, mai provate fino ad allora, dei giorni della prima gravidanza di Silvia, e successivamente a una valanga di ricordi, altrettanto nuovi, di Pietro piccolino, del suo sviluppo e della nostra vita a tre; a innumerevoli manicaretti, serate con gli amici, giornate trascorse a lavorare bevendo tè, a CD sperimentati per la prima volta tra quelle mura; a notti insonni e lacrime versate su quel divano verde muschio e sul tavolo di pietra rosa della cucina, nascondendomi dietro una confezione di cereali per non farmi vedere da mio figlio; e infine ai primi segnali notturni di una nuova nascita, a una carezza a Pietro che dorme accanto alla parete verde scuro della sua stanza, al frastuono del ferro tremolante del portone del garage nella notte silenziosa, per poi riunirci sotto quel tetto, questa volta in quattro con l’arrivo di Gemma, qualche giorno dopo. A questo e tanto, tantissimo altro ancora, mi viene ora da collegare automaticamente l’appartamento di Piazza Marconi, e mi chiedo se, tra sette anni e mezzo, lo stesso meccanismo di sostituzione si attiverà nella casa che ci ospita ora e di cui avrò modo di parlare nel prossimo post.

domenica 21 agosto 2011

patrimonio

Ieri sera ho finito Patrimonio di Philip Roth, di cui, ammetto, finora avevo solo letto Lamento di Portnoy e Pastorale americana. Mi era già venuta voglia di leggerlo tempo fa,  dopo aver visto questo post scritto da un mio amico, ma ho deciso di affrontarlo solo ora per creare la giusta distanza rispetto alla morte di mio padre. Il libro parla infatti del rapporto tra l'autore e il padre malato di cancro, e degli ultimi mesi di vita di quest'ultimo. Al di là dell'effettivo valore del libro, indubbiamente un capolavoro, vi ho ritrovato molte delle sensazioni che provai nel corso della terribile progressione della malattia. Molte di quelle riflessioni, di quelle lacrime, di quei pugni nello stomaco, di quel senso di impotenza di fronte a un male così spietato.
Un passaggio in particolare descrive perfettamente uno dei vari stati d'animo che si alternavano in me in quei giorni. Uno stato d'animo che, in fin dei conti, nei mesi successivi mi ha spinto a creare questo blog. Quindi, smentendomi in parte rispetto al mio ultimo post, lascio che siano le parole di Roth a rievocare quei momenti nei quali restavo seduto in silenzio sul suo letto a fissargli le mani:

"Lo osservai intensamente, come per la prima volta, e continuai ad aspettare che nella testa mi si formassero altri pensieri. Ma non ne arrivarono più, nessun altro pensiero tranne questo: che dovevo fissarmelo nella memoria per quando fosse morto. Forse gli avrebbe impedito di sbiadire e diventare etereo col passare degli anni. «Devo ricordare con precisione, - mi dissi, - ricordare ogni cosa con precisione, in modo che quando se ne sarà andato io possa ricreare il padre che ha creato me». Non devi dimenticare nulla."





venerdì 5 agosto 2011

arma a doppio taglio

Esattamente un anno fa, a quest'ora, mio padre ci lasciava, abbandondoci alla sua assenza. Mentre si avvicinava la data di questo triste anniversario, mi sono chiesto più volte cosa avrei potuto, cosa avrei dovuto scrivere su questo blog incentrato sulla memoria. Avrei  dovuto rievocare quel giorno? Avrei dovuto fare un resoconto di quest'anno e del vertiginoso senso di vuoto che l'ha caratterizzato? O sarebbe stato meglio trascrivere i ricordi più belli e importanti che ho di mio padre, o ancora uno solo, il più emblematico? Ma la figura di mio padre e la sua assenza non permeano già forse ogni angolo di questo blog? Basta buttare l'occhio sulla colonna delle etichette qui a destra, per rendersene conto.
Fatto sta che non mi va di parlarne in quest'occasione. Per una volta, preferisco mantenere nell'intimo della mia memoria privata i ricordi più belli e quelli più dolorosi.
C'è però una piccola considerazione di carattere generale e attinente al tema che anima questo blog, che mi sento di fare: nel corso di quest'anno mi sono reso conto di quanto i ricordi possano essere anche un'arma a doppio taglio. Si sa che rievocare alla memoria degli eventi, anche dolorosi, può dare comunque un senso di piacere. A volte è stato così, ma non sempre.  Ci sono stati giorni nei quali mi sono sentito letteralmente aggredito dai ricordi, che si accavallavano mio malgrado nella mia mente, violenti e caotici, ribadendo tutti ad alta voce un'unica amarissima verità, di una semplicità disarmante: che non ce ne sarebbero stati altri.

sabato 23 luglio 2011

uno scrigno di sorprese 3/3: l'aurea

 L'ultima sorpresa uscita fuori dalla scatola di fotografie di mia nonna Rina è naturalmente costituita da quelle che ritraggono mio padre, per poche che siano (tutte le altre se le era già prese lui in passato, per passarle allo scanner e catalogarle). Mio padre Bartolomeo compariva infatti nel servizio sul funerale di mio bisnonno, in una foto del matrimonio di mia zia Margherita (Mimi), e infine in queste due foto scattate nella seconda metà degli anni Sessanta. Sul retro di una di esse mia nonna aveva scritto, con una grafia dall'aspetto ormai antico:

 Dott. Nino - 1° anno l'aureato in medicina


Traspare in questa didascalia tutto l'orgoglio di mia nonna per i risultati conseguiti dal figlio, probabilmente il primo laureato, in un'epoca in cui la laurea non si dava ancora quasi per scontata, di una famiglia di commercianti di stoffe e carbone, di falegnami e filandere.
Per il resto, non ho idea di dove sia stata scattata (immagino in un ristorante di Torino), né di chi siano le persone ritratte insieme a lui, salvo l'uomo con gli occhiali che mia madre dice essere un medico suo compagno d'università.
Sugli anni universitari di mio padre, purtroppo, non so molto, ma questo è un tassello in più, e per ovvie ragioni è ai miei occhi la più preziosa delle sorprese.

lunedì 11 luglio 2011

uno scrigno di sorprese 2/3: il funerale di nonno giacomo

La scatola di fotografie di cui ho scritto nell'ultimo post conteneva un'altra sorpresa, ancora più inattesa. In un piccolo album dalla copertina nera, era infatti racchiuso un sintetico servizio fotografico del funerale di mio bisnonno Giacomo (Giacomo Raimondo), padre di mia nonna Rina. Realizzato da un fotografo professionista (sull'etichetta è indicato Servizi Fotografici A. Rafele, Piazza G. Grosso 2, Cambiano) proprio come si usa tutt'oggi per i matrimoni, testimonia un'usanza adesso perduta e per me inimmaginabile.
La selezione di fotografie che espongo qui sotto fu scattata il 27 aprile del 1957, e mostra il corteo che, dall'abitazione di mio bisnonno (il piccolo palazzo giallo in piazza Marconi che vedo oggi dalla finestra della mia cucina e che attualmente ospita un'erboristeria) prosegue fino alla chiesa parrocchiale. Alla testa del corteo si riconoscono la moglie Caterina Mulasso, i miei nonni, e infine mio padre e mia zia Margherita ancora bambini.
Sono per me fotografie molto preziose, per diversi motivi. Innazitutto, esse costituiscono una piccola testimonianza visiva della Canale d'allora: vi si intravedono infatti alcune abitazioni non ancora, o almeno solo in parte, rimpiazzate da orrendi palazzi piastrellati anni Sessanta-Settanta; in Via Roma (angolo Via Garibaldi) si nota l'insegna di un negozio di cappelli e calzature (Barbisio), mentre sull'altro lato compare un manifesto d'epoca che pubblicizza la tintura per indumenti "Super Iride"; infine, è evidente la diversa conformazione del piazzale della Parrocchia di S.Vittore (stando a quanto dice mia madre, la casa che si vede sullo sfondo nell'ultima foto, al posto della quale ora c'è la cartoleria Marchisio, apparteneva a un sarto di nome Arturo, amico di mio nonno Berto).
Ciò che tuttavia emerge con maggiore evidenza da tali fotografie sono i radicali cambiamenti, verificatisi nell'arco di poco più di cinquant'anni (ma anche molto meno, perché nei miei trent'anni di vita non ho alcun ricordo del genere) negli usi e nei costumi della popolazione canalese: la relativa imponenza del corteo, preceduto da bambini, suore, frati e donne col velo, così come l'importanza stessa attribuita al funerale, tale da giustificare addirittura un servizio fotografico, sono indicatori di quanto diversamente fossero concepite le dimensioni religiosa e comunitaria, e di quanto maggiore rispetto a oggi fosse il ruolo che esse esercitavano nella vita della collettività paesana.
Per finire, queste fotografie raffigurano un evento importante della storia della mia famiglia, mostrandomi com'erano allora i protagonisti che lo subirono. Io non conobbi mai mio bisnonno Giacomo, che morì di tumore alla prostata vent'anni prima della mia nascita, ma ne presi il nome e ne sentii spesso parlare da mia nonna e da mio padre, che lo descrivevano come un uomo forte, amato e rispettato. Di suo sopravvive oggi il ciabòt che egli stesso costruì e che uso ancora oggi.
Scrive di lui mio padre, in una nota dell'albero genealogico:

Uomo molto energico e di bell'aspetto. Iniziò l'attività di maniscalco.
Poi passò al commercio di carbone e di tualete. Molto amato dai
compaesani. Perse una figlia dell'età di 16 anni per linfoma.









martedì 5 luglio 2011

uno scrigno di sorprese 1/3: aria fresca

Da sinistra: nonno Tavio, Lena, nonna Rina, Secondo.
Fotografia scattata a Monaco nel settembre del 1979.

Come già accennato in un post precedente, alcuni mesi fa ho scoperto, a casa dei miei genitori, una scatola di legno che conteneva le fotografie appartenute a mia nonna Rina. Era rimasta su una scarpiera per non so quanti anni, credo dalla morte di mia nonna, e probabilmente mai nessuno l'aveva aperta, da allora. La maggior parte di esse era stata scattata in occasione di viaggi (probabilmente gite organizzate, nel corso degli anni Settanta-Ottanta, dal centro anziani o dalla parrocchia di Canale), e ritraeva i miei nonni spesso in compagnia della loro coppia di amici Lena e Secondo (anch'essi parte dei miei ricordi d'infanzia, e anch'essi dimenticati fino a oggi). Sfogliare quel mucchio indistinto di polaroid ingiallite e istantanee sghembe o fuori quadro ha rinvigorito l'immaginario visivo e contestuale attraverso cui oggi rievoco nella mente i miei nonni paterni, scomparsi una quindicina d'anni fa, rispolverando in me angoli della memoria fino a oggi accantonati. Sì, perché mi sono accorto che, dopo tutti questi anni (circa metà della mia vita), quell'immaginario era andato cristallizzandosi eccessivamente su un pugno di situazioni e una manciata di fotografie scattate da mio padre principalmente negli anni Ottanta nel cortile della nostra casa, oltre che su uno sparuto gruppetto di ritratti di gioventù che però non fanno direttamente parte dei miei ricordi. Non che le gite dei miei nonni rientrino nei miei ricordi personali, però li hanno sfiorati in qualche modo, mediati da racconti e souvenir. Non so bene come esprimerlo, ma nell'aprire quella scatola di fotografie scattate in giro per l'Italia e occasionalmente per l'Europa, mi è sembrato un po' di liberare i miei nonni da cornici anguste e sempre uguali a se stesse (quelle che li racchiudono insieme a me e ai miei fratelli bambini, ma anche quelle che ne fissano l'esistenza sulla lapide di famiglia), conferendo loro nuova vita, respiro, tridimensionalità. Mi è sembrato di aprire una finestra, fare luce, portare nuova aria.
Sarà fisiologico, ma non mi sembra vero, né giusto, che io ricordi così vagamente, così malamente, i miei nonni. Vorrei avere più memoria, per rendere giustizia all'affetto provato da loro nei miei confronti. Me lo dico soprattutto ora che, da genitore, ho modo di osservare da un'angolazione diversa quale sia il rapporto tra nonno e nipote. E mi rendo anche conto di quanto li conoscessi poco, in fin dei conti.
 Diventa difficile tenere un blog sulla memoria quando ci si trova davanti un magma indistinto pieno di zone d'ombra. Fortunatamente ogni tanto può capitare che ti giunga in aiuto uno scrigno segreto, a rischiarare qualche angolo buio.

martedì 31 maggio 2011

memorie flash (1) - la casa delle pumpette

Ci sono alcuni ricordi di infanzia che sono troppo vaghi, frammentari e scollegati per riuscire a inserirli in un discorso di ampio respiro. Per quanto mi sforzi di ricordare, di connetterli ad altro, se ne stanno lì, a galleggiare come isole nel nulla, prive di ponti che consentano una visione d'insieme. Sono frammenti che difficilmente dimenticherò perché ormai sono, così come sono, impressi a fuoco nella mia memoria. Sebbene il tempo abbia eroso tutto intorno la terra su cui poggiavano, essi ormai se ne stanno lì, induriti, fossilizzati, eterni e soli. Ma chissà che, trascrivendoli, non riportino a galla qualcos'altro...

Ecco dunque il primo :

L'appartamento di due vecchine amiche di mia nonna Rina, dette in piemontese "Pumpette", che abitavano in un punto imprecisato di Via Mazzini, vicino alla casa con le due statuette di Topolino sul muretto che fu la casa dell'infanzia di mio padre. Ricordo che mia nonna qualche volta mi ci portò, da bambino, e mi tornano alla memoria un arredamento antico, mobili scuri, un soffitto basso, caramelle di zucchero e un colore aleggiante tra il turchese e il verde pallido. Non so perché, ma se mi sforzo di collocare queste visite, mi viene in bocca un sapore natalizio, un'atmosfera dickensiana, la nebbia, il freddo, la luce dei lampioni nel pomeriggio che è già sera. Una Canale quasi vittoriana tanto sembra distante nello spazio e nel tempo. Chissà quanto c'è di autentico, e quanto invece è frutto di contaminazione, di sovrapposizione e stratificazione, in questi sapori?

giovedì 24 marzo 2011

il salice piangente e la storica invasione

1982, io abbracciato al salice.
Come accade per le musiche, capita che alcuni odori accompagnino esperienze particolarmente intense della nostra vita e che pertanto, a distanza di anni, sia possibile evocarne con la mente un ricordo, per quanto vago e difficile da definire, direttamente nelle nostre narici. Alcuni di questi odori, se incontrati a distanza di anni, risvegliano memorie piacevoli (nel mio caso, penso al profumo che aleggiava nel laboratorio della panetteria Scaravaglio quando il panettiere mi permetteva di guardarlo lavorare mentre mia madre faceva la spesa nel negozio adiacente). Talvolta, tuttavia, accade che certi odori rimandino a esperienze meno simpatiche.
Un odore che non sento ormai da anni ma che saprei disegnare perfettamente a memoria se solo gli odori si potessero rappresentare graficamente, è quello dolciastro che aleggiava a casa dei miei genitori durante la storica invasione del Cossus cossus, un episodio entrato ormai  a far parte della mitologia privata di casa Calorio. Allora, ai tempi delle scuole elementari (credo fosse il 1985 o 1986, a giudicare dalle foto di famiglia scattate in giardino), non avevo la minima idea di quale fosse il nome dell'orrido invasore, né ce l'avevo fino a dieci minuti fa, ovvero prima di indagare con l'aiuto di Google, ma il suo aspetto è sempre stato ben scolpito nella mia mente, sebbene siano trascorsi oltre vent'anni da quei giorni. Rivederne le foto ora su questa pagina web, è stato un po' come ritrovare un vecchio amico. La testa nera, la macchia scura sulla nuca, la coriacea pelle color prugna del dorso, il ventre giallo decorato di puntini, i peli ispidi... è esattamente l'alieno misterioso dei miei ricordi.
Ma veniamo al dunque.
 
L'orrido invasore (foto scaricata dal web)
Dovete sapere che, quando ero bambino, in giardino avevamo un bellissimo salice piangente. Ricordo ancora sulla pelle dei palmi la sensazione della corteccia ruvida, nell'appoggiarmi al tronco per giocare a nascondino o a chissà che altro. E ricordo distintamente il fruscio della chioma che ondeggiava nelle giornate ventose, così come quello dei miei piedi di bambino che calpestavano le foglie secche a fine estate. Tuttavia, i giorni di gloria di quel salice ebbero fine quando esso divenne preda e dimora della larva di un lepidottero chiamato appunto Cossus cossus o, più comunemente, "Rodilegno". Incapace di difendersi, l'albero venne divorato dall'interno da quelle grosse larve violacee grandi come il dito di una mano, finché mio padre non decise di abbatterlo. E così non avevamo più il nostro bell'albero, ma la storia non si esaurisce qui. Perché se è vero che forse capitò qualche volta che alcuni bruchi intraprendenti si avventurassero fin sul balcone di casa usando come scala le fronde piangenti,  fu dopo l'abbattimento del salice che  il racconto prese una piega che rasentava il film dell'orrore. Come dicevo, mio padre abbatté l'albero e, con l'aiuto del mio fratello maggiore, ne fece legna per il caminetto. Quando la pianta fu fatta a pezzi, iniziò la diaspora dei rodilegno per il giardino e sui muri della casa, ma la situazione peggiorò ulteriormente allorché portammo la legna tagliata nel sottoscala interno alla casa. Dentro quei piccoli cavalli di Troia si nascondevano ancora dei bruchi sopravvissuti, i quali presero a invadere l'abitazione dall'interno. A quel punto divenne una specie di incubo. Ne trovavi veramente ovunque. Tra gli episodi più eclatanti, mia sorella che, avvistandone uno sul pavimento della zona notte lo scambiò per un pastello e quasi lo raccolse, ma soprattutto mio fratello che ne trovò uno - udite! udite! - nella zuppa inglese. Personalmente ne ero anche incuriosito: ricordo che provai a stuzzicarne uno con un cacciavite, e che questo si attaccò aggressivamente alla punta di metallo con le tenaglie. Ricordo che un altro spruzzò un liquido nerastro, forse per difendersi. Ricordo che uno provai ad allevarlo in un barattolo e che lo portai anche a scuola... ma poi ovviamente morì, così come il suo compare che, con sadismo infantile e un po' rancoroso, io e mio fratello bruciammo vivo nell'alcol.
Ma soprattutto, ricordo benissimo l'odore nauseabondo che emanavano quegli orribili - ma pur sempre affascinanti, agli occhi di un bambino appassionato di animali e di mostri - larvoni viola. Un odore che non ci lasciò del tutto finché non avemmo bruciato l'ultimo pezzo di legno. Qualche tempo fa, non so più in che occasione, ricordo di aver sentito un odore simile, ed è subito partito il flashback
Segue piccola galleria commemorativa del povero albero.

1982, io con l'albero alle spalle.

1982, insieme a mia sorella tra le fronde.

1982, con i miei fratelli e l'albero in un pomeriggio d'inverno.
1983, mia madre con la famiglia di Mimi, la mia zia paterna, e la nostra cagna Mirka, al fresco dell'albero in un pomeriggio d'estate.


venerdì 28 gennaio 2011

i ricordi che non ho

Esistono ricordi che non sono incisi direttamente nella nostra esperienza personale, ma entrano a farvi parte attraverso i racconti, i dati, i documenti, le immagini che abbiamo ereditato e assorbito da coloro che sono venuti prima di noi. Io ho sempre avuto un rapporto ai limiti dell'idiosincrasia con la Storia in senso generale (ho enormi difficoltà a comporre gli eventi del passato in una visione d'insieme cronologicamente strutturata, e le date scivolano via dalla mia memoria come un insieme di cifre prive di senso), ma in compenso nutro un grande interesse e attaccamento per la Storia "privata" della mia famiglia e del contesto geografico e culturale in cui sono nato. Ho la fortuna di disporre di un ricco bagaglio di fotografie dei miei antenati e, soprattutto, di un  ricco e dettagliato albero genealogico lasciatomi da mio padre, indispensabile a conferire a tali fotografie un senso e una collocazione. Proprio di recente ho rinvenuto una scatola di fotografie mai viste prima appartenute a mia nonna, e sollevarne il coperchio è stato per me più emozionante che aprire lo scrigno del più ricco dei tesori. Il legame di sangue che percepisco intercorrere tra me e i protagonisti di tali fotografie, scattate per lo più in epoche delle quali non ho memoria perché non ne facevo parte, mi fornisce uno spunto per donare a questo blog nuove e stimolanti sfaccettature.

Per un motivo o per l'altro, tutte le fotografie che ho visionato consultando e perfezionando l'opera di mio padre nei ritagli di tempo sono degne di interesse. Alcune testimoniano usanze ora decadute, altre angoli del mio paese che non ci sono più, altre ancora suggeriscono l'origine di tratti somatici emersi successivamente nel patrimonio genetico mio, dei miei genitori, dei miei fratelli. Alcune semplicemente mostrano lati a noi ignoti di persone che abbiamo conosciuto in vita. Ciascuna foto, forse anche in virtù del loro numero relativamente esiguo, è di per sé interessante, ma ve ne sono alcune che mi hanno colpito più di altre, perché cariche di significati più intensi, talvolta drammatici. Una di queste è l'istantanea che vedete qui sotto.

 L'avevo già vista distrattamente altre volte in passato, e le uniche due cose che avevo notato sono il fatto che fosse stata scattata in piazza Vittorio Veneto a Torino,  in corrispondenza del ponte della Gran Madre, e il fatto che una delle tre donne che vi compaiono fosse mia nonna Rina da giovane. Ho dunque sempre pensato che fosse stata scattata nel corso di una lieta gita nel capoluogo della regione.
Ieri mi è tuttavia capitato di leggere la didascalia che mio padre aveva scritto su un file a parte, quando ha passato allo scanner gran parte di queste foto. La riporto per intero:

Raimondo Caterina, Raimondo Margherita e Rissone Maria.
Questa foto è stata scattata nel 1941 a Torino, dove Margherita, affetta da linfoma, era stata portata per una visita medica.

Raimondo Caterina era mia nonna Rina, ovvero la donna sulla sinistra. Rissone Maria, la signora sulla destra, da nubile faceva Mulasso di cognome, ed era sorella di mia bisnonna e quindi zia di mia nonna. Le cosa per me più sconvolgente è tuttavia la presenza di Margherita, sorella minore di mia nonna: la data della fotografia (scattata, tra l'altro, in tempo di guerra) e il dettaglio sul motivo del viaggio ribaltano completamente il senso dell'immagine, generando istantaneamente rimandi con alcuni ricordi della mia infanzia, inducendo spontanei calcoli cronologici e l'esigenza di ulteriori informazioni, ma soprattutto costringendo l'occhio a soffermarsi sull'espressione della ragazza, sul suo sguardo serio rivolto all'obiettivo, sulla sua triste bellezza.

La mia prozia Margherita, nata nel 1926 a Canale d'Alba, morì nel 1942 all'età di sedici anni, a causa di quello stesso linfoma. La fotografia fu scattata un anno prima della sua morte, e io non oso immaginare quali pensieri si agitassero nella sua testa nel momento in cui l'ignoto fotografo premette il pulsante. Non oso immaginare il dolore provato dai suoi genitori, per me solo volti all'interno di un archivio fotogratico e protagonisti di alcuni racconti dell'infanzia, e soprattutto da mia nonna, che un giorno, quando ero bambino, mi confessò di detestare il Natale perché proprio in quei giorni le era stata portata via la sorellina. Di mia prozia Margherita non ho ricordi di prima mano, come non ne aveva mio padre, nato due anni dopo la sua morte. So che mia nonna diede il suo nome alla sua seconda figlia, mia zia, e ricordo il suo ritratto in una cornice ovale di legno scuro, appeso accanto a quello di mio bisnonno Giacomo nella stanza in cui ora gioca e dorme mio figlio Pietro. Tutto il resto sono ricordi che non ho di una prozia che non ho mai avuto.

giovedì 30 dicembre 2010

il fantasma dei natali passati

Ecco, col consueto ritardo, alcune reminiscenze dei miei trentadue natali passati. Senza entrare troppo nel dettaglio, visto che ora non ho molto tempo e per di più non voglio bruciarmi gli argomenti per i Natali futuri.

Nel primo Natale che ricordi compare un robot di plastica rosso, arancione e blu scuro, con una trivella al posto del braccio. Quanti anni avrò avuto? Lo scenario è la cucina arancione della casa dei miei genitori, e a fuoco c'è quel soprammobile di - credo - peltro a forma di fagiano. Non ricordo quando ho smesso di credere a babbo Natale, ma ho un ricordo di me in salotto che guardo dalla finestra verso il cancello di Via Mompissano da cui sarebbe presumibilmente arrivato. Mi rivedo inoltre interrogarmi di fronte al presepe su quali fossero i rispettivi ruoli di Babbo Natale e Gesù Bambino. Ricordo una recita di Natale dell'asilo, con un foglietto da imparare a memoria seduto sugli scalini del salotto. Non ricordo di regali aperti la mattina del 25, perché per me il Natale è il rito familiare della sera della vigilia, tramandato quasi intatto fino allo scorso anno. 
Dopo la cena che noi bambini consumavamo in fretta e furia lamentandoci della calma snervante con cui mangiava mio padre (che probabilmente lo faceva apposta), mia madre lavava i piatti, mentre noi forse davamo una mano a spreparare al solo scopo di anticipare il più possibile l'apertura dei regali. Dopodiché si saliva tutti in macchina a fare il giro degli auguri ai nonni, prima quelli paterni, poi quelli materni. Durante gli anni del liceo, le visite si sono dimezzate  riducendosi solo ai nonni materni, e più passavano gli anni, più i miei fratelli e io stavamo stretti sul sedile posteriore dell'auto. Infine si tornava a casa, dove mio padre spezzava degli stuzzicadenti e decretava l'ordine dei turni dell'apertura dei regali in base alla lunghezza dello stecco pescato. Senonché, puntualmente sul più bello, proprio durante il tanto agognato spacchettamento, suonava il citofono o il campanello a interrompere il tutto, e noi bambini friggevamo. Un paio di volte dev'essere stato Ettore, il vicino di casa, venuto a farci gli auguri. Da allora, ogni volta che la sera della vigilia suonava il campanello, tutti esclamavano alzando gli occhi al cielo: "Ettore!".

lunedì 20 dicembre 2010

il tempo delle medie: stephen king, elton john e quelle merendine della mr. day

Se c'è un'età che causa imbarazzi a posteriori, è quella che corrisponde grosso modo al passaggio dall'infanzia all'adolescenza, ovvero l'età delle scuole medie. In quel periodo della vita si è ancora piccoli ma si smania dalla voglia di apparire grandi, e lo scarto tra le intenzioni e i risultati provoca inevitabilmente un senso di ridicolo. Questo per dire che per me l'espressione "bimbo delle medie" ha sempre avuto un'accezione abbastanza negativa.
Si tratta tuttavia di un'età molto importante in quanto è quella in cui inizia a delinearsi con maggiore precisione la personalità di un individuo e si gettano le basi di ciò che verrà sviluppato con vigore negli anni dell'adolescenza. In particolare, io trovo che sia l'età in cui i gusti di una persona, per quanto acerbi, cominciano a manifestarsi in maniera indipendente, così come le sue passioni e i suoi interessi. Almeno nel mio caso credo che sia andata così.
 A quei tempi, ovvero a cavallo tra Ottanta e Novanta, iniziai a coltivare in maniera relativamente autonoma (ovvero non per riflesso dei miei fratelli maggiori) passioni come quelle della musica e della lettura. Nel corso degli anni ho poi smesso di ascoltare o leggere le cose che mi piacevano allora, ma  non posso negare che esse abbiano rappresentato un passo importante nella mia crescita, costituendo una linea di demarcazione rispetto a quando mi limitavo a pescare indiscriminatamente tra le musicassette di mio fratello o di mia sorella.

In particolare, ho degli intensi ricordi dei pomeriggi o delle serate passate sul letto a leggere romanzi di Stephen King, mentre di sottofondo suonavano musicassette di Elton John. A dire il vero, c'è un terzo elemento a condire questi ricordi: il cibo, perché sin dall'infanzia ho sempre avuto l'abitudine di mangiare qualcosa mentre leggevo. Non so perché, ma senza cibo mi sembrava che mancasse qualcosa.
La lettura di Stephen King iniziò, credo, in prima o seconda media quando presi in mano, su consiglio del mio amico Vaga (o di suo fratello), Gli occhi del drago. In quel periodo ero appassionato di fantasy, e forse avevo già anche letto qualche romanzo di Terry Brooks di mio fratello, ma quello di King mi colpì più profondamente a causa della per me insolita crudeltà che lo caratterizzava. Fece seguito IT, e fu per me una rivelazione il brivido che provai leggendo le prime pagine, quando lo scrittore descrive il bianco dell'omero che sbuca fuori dal moncherino del braccio di un bambino dopo che questi è stato azzannato dallo spaventoso pagliaccio, affacciatosi sulla strada da un tombino: ricordo che mi stupii del fatto che si potesse provare paura  semplicemente leggendo. Prima di allora pensavo infatti che la paura fosse un fatto puramente visivo.
Poi ne vennero tanti altri, ma quelli che mi sono rimasti più impressi sono L'ombra dello scorpione e i racconti brevi di Stagioni diverse e Quattro dopo mezzanotte. Proprio a quest'ultima raccolta si collega il ricordo più nitido e intenso che raggruppa i tre elementi di lettura, musica e cibo: è un'immagine di me disteso sul letto di mia sorella a leggere il racconto I langolieri mentre un piccolo mangiacassette nero suona un Best of (o forse era l'album Sleeping With the Past) di Elton John, e io divoro delle buonissime merendine di sfoglia ripiena di crema al limone. Le produceva un tempo la Mr. Day e ora non so bene perché non le faccia più (qui ci sarebbe materia per un altro post).
Ci sono altri ricordi legati a quel periodo di ascolti e libri presi in prestito dalla biblioteca di Canale (un salame al finocchio mangiato avidamente sulle pagine de L'incendiaria; i racconti di Scheletri  letti uno dopo l'altro in una giornata estiva di permanenza forzata a letto; L'occhio del male consumato sul terrazzo in un pomeriggio d'estate mentre in cortile c'erano i miei nonni paterni), ma quella particolare immagine così vivida e ricca di calore è per me è emblematica di un intero periodo e dei suoi frutti migliori.

Per quanto riguarda la mia passione per Elton John, non ricordo come fosse nata, forse da una cassetta di mio fratello, forse da un vinile di Vaga, ma divenne presto un'infatuazione autonoma. Allora ascoltavo già cose  di gran lunga migliori che continuo ad amare ancora oggi (in primis Highway 61 Revisited di Bob Dylan, che prese mio fratello in edicola con la collana "Il grande Rock" ed è tuttora uno dei miei album preferiti di sempre), ma Elton John ebbe il merito di essere il mio primo idolo musicale, e la sua musica di essere una passione che sentivo soltanto mia. A quel tempo, cercavo avidamente notizie sul suo conto, provavo a imparare le sue canzoni pur non sapendo l'inglese, attendevo con ansia che MTV passasse qualche suo video. Di Elton John furono anche i miei primi CD. Il mio primo compact disc in assoluto fu infatti Captain Fantastic and the Brown Dirty Cowboy, che chiesi per Natale. Anni dopo lo vendetti a un amico e in fondo un po' mi dispiace. In breve tempo la mia indole monomaniacale si sarebbe focalizzata su altre cose la cui scoperta portò a una ridefinizione dei miei gusti, così che oggi non mi passerebbe mai per l'anticamera del cervello di mettere su un CD di Elton John, se non per un attacco di nostalgia irrefrenabile o di curiosità volta a scoprire cosa ci trovava quel ragazzino, quell'embrione di me, in quel pop spesso (ma non sempre, per carità) superficiale e melenso. Ringrazio tuttavia Sir Reginald  Kenneth Dwight per aver svolto un ruolo importante nella mia crescita musicale e per aver  accompagnato, attraverso le cuffie di un walkman o l'autoradio di mio padre quando lui acconsentiva a mettere su qualcosa di mio, un bel viaggio in Francia insieme ai miei genitori nei primissimi anni Novanta: ricordo Crocodile Rock e Your Song stampati sui monti dell'Alvernia, sebbene i miei brani preferiti, nonché quelli che considero oggi tra i più validi e tuttora degni d'ascolto, fossero Sixty Years On e Madman Across the Water.

sabato 20 novembre 2010

una giornata al mare

I miei ricordi legati al mare raramente risalgono all'infanzia. Mi vengono in mente episodi che appartengono agli anni del liceo, altri collocati ai tempi dell'università, ma il mare vissuto da bambino per me è un ricordo abbastanza indistinto, e faccio molta fatica a pescare dal caos qualcosa di definito. Le uniche cose che riesco a mettere a fuoco sono delle caramelle gommose a forma di orsetto, dei braccioli arancioni, io che resto con mio nonno Berto mentre mia madre nuota in lontananza. Ma si tratta di cocci, più che di ricordi. Questo perché mio padre prediligeva la montagna, e le gite al mare erano per me una rarità, specialmente dalle elementari in avanti.
La giornata del mare che dà il titolo a questo post, infatti, riguarda tempi ben più recenti.
Qualche giorno fa sono stato a Varazze con Silvia e i bimbi, e la domenica abbiamo pranzato fuori. Io ho ordinato dei totani alla griglia, e più tardi, mentre immerso nella desolazione invernale della spiaggia che affianca la "casa araba" sentivo ancora in bocca il loro sapore, mi è tornato in mente quel giorno di ormai quasi tre anni fa in cui con i miei genitori, Silvia e un Pietro ancora piccolo, trascorsi una fugace giornata al mare.
Anche quel giorno era inverno (si era intorno a febbraio, credo) e c'era brutto tempo, e anche quel giorno ordinai, in un diverso ristorante situato sul lungomare di Varazze, totani alla griglia. Mio padre ordinò due bottiglie di un qualche vino bianco ligure, e le consumammo quasi interamente io e lui. A dire la verità, non compresi bene perché mai mio padre avesse ordinato la seconda bottiglia (bevevamo solo in tre perché Silvia era in allattamento, quindi una bottiglia sarebbe stata sufficiente), e soprattutto perché volle finirla a tutti i costi riempendomi il bicchiere fino all'orlo a fine pasto, ma la sensazione di quel momento era un po' quella della canzone di Paolo Conte, nel punto in cui il cantautore astigiano recita che "il vino bianco è fresco e va giù bene come questo cielo grande su di noi". Anche se il cielo di Wanda io me lo immagino azzurro, mentre dalla finestra di quel locale dai toni verde scuro si affacciavano soltanto nuvole basse e plumbee.
Quel pomeriggio non facemmo molto a causa del brutto tempo (a dispetto del quale mio padre ci offrì, come fossimo dei bambini, un ottimo gelato), ma ricordo con piacere quella lieve sensazione di ebrezza ed euforia che ha il potere miracoloso di far sentire vicine le persone. In fin dei conti, non mi è capitato molto spesso di ritrovarmi brillo insieme a mio padre, ma colloco quelle poche occasioni tra i momenti belli della mia vita.

martedì 9 novembre 2010

giocobimbi

Com'è naturale che sia, in ogni famiglia si forma, nel corso di decenni di vita comune, una sorta di codice esclusivo immediatamente riconoscibile dai suoi membri e di meno facile comprensione agli orecchi esterni: un "lessico famigliare", per definirlo prendendo a prestito il titolo del celebre romanzo di Natalia Ginzburg. In alcuni casi, a causa del carattere di refrattarietà a mutamenti e correzioni insito nel suo essere radicato nel profondo, tale codice finisce per essere veicolatore di una memoria affettiva e privata. Esso può  infatti mantenere intatto il proprio valore nel linguaggio presente, ma poiché le sue radici affondano quasi sempre in tempi assai più lontani, finisce per rappresentare una sorta di  lungo strascico del passato, una memoria ancora viva e pulsante. In grazia di questa sua virtù, il lessico famigliare di casa Calorio entra di diritto nel novero degli argomenti di questo blog.

Nell'ambito della mia famiglia, il termine forse più peculiare in questo senso è il neologismo "giocobimbi". Esso indica un locale della casa dei miei genitori che spesso, di fronte ad altre persone, mi sono a fatica sforzato di chiamare correttamente "tavernetta" o "cantinetta", quale effettivamente è: ogni volta che mi trovo costretto a usare termini del genere mi sembra di violare qualcosa, di forzare la vera natura, invisibile e puramente emotiva, di quel luogo. Ma soprattutto, mi ritrovo ad applicare una vera e propria "traduzione in italiano" a qualcosa che dentro di me corrisponde a una voce differente.
Probabilmente nelle intenzioni iniziali dei miei genitori quella stanza avrebbe dovuto essere adibita a chissà quali giochi di noi bambini, e ho il sospetto che sia stata l'etichettatrice con cui mio fratello aveva siglato tutte le porte della casa a stigmatizzare così fortemente il locale come "il giocobimbi". Fatto sta che, a dispetto del nome sopravvissuto fino a oggi, non ricordo di aver giocato abitualmente lì dentro, e quel locale situato al piano terra  ha assunto nel corso degli anni altre funzioni più consone alla sua natura.
L'unico giocattolo di cui ricordi la presenza all'interno di quella stanza era una primitiva console che consentiva di giocare a Pong e a qualche altro rudimentale videogame su un televisore in bianco e nero (i miei ricordi al riguardo sono parecchio annebbiati: forse era anche dotata di pistola? Forse c'è stata più di una console? In ogni caso probabilmente era una di queste). Mi resta poi una vaga impressione di giornate estive nelle quali il  giocobimbi forniva un fresco riparo dalla calura estiva... un luogo in cui mangiare una fetta d'anguria dopo aver giocato in  giardino, dentro a una tenda indiana vinta con i punti delle "Girelle" Motta. Ma più che altro, associo il giocobimbi alle riunioni serali degli amici dei miei genitori al calore di una stufetta di ghisa che ora ho nella mia cucina; alle prove del coro gospel in cui cantavano mio padre e mia sorella; e soprattutto a dei pomeriggi d'inverno in compagnia delle mie due nonne: nonna Gemma che stirava nella stanza adiacente, tra i vapori del ferro da stiro dal caratteristico odore; nonna Rina che sedeva con in mano ago, filo e quel curioso uovo di legno, a rammendare calzini.
A fare cose che non riesco a ricordare mentre loro due chiacchieravano intente nelle loro mansioni. Certo, probabilmente si trattava di giochi.

mercoledì 20 ottobre 2010

l'occhio invisibile


La foto che ho scelto come intestazione di questo blog (così come quella che compare come immagine del profilo) è stata scattata da mio padre nel 1981, all'epoca in cui io avevo la stessa età che ha ora mio figlio Pietro. E' ambientata nel salotto della casa dei miei genitori, e mi ritrae in una delle abitudini della mia infanzia, ovvero quella di sedermi sul davanzale della finestra con la schiena contro il muro e guardare al di fuori. Adoravo il calore che emanava dal termosifone sottostante, a cui si aggiungeva, nelle giornate di sole, il tepore che filtrava dai vetri. Se mi sforzo riesco anche a evocare la ruvida sensazione della tapezzeria che sfregava contro la mia maglia. La cornice della finestra inquadra un panorama familiare ora evolutosi e sovrastato da nuovi alberi cresciuti negli anni. A giudicare dal mio abbigliamento e dal bianco che sembra colorare uno dei tetti che si intravedono in lontananza, direi che era una giornata d'inverno. Chissà se ero in attesa del Natale.

All'epoca, mio padre non aveva soltanto l'hobby di scattare fotografie, ma anche di svilupparle. A distanza di così tanti anni, se penso alle apparecchiature, alle vaschette di plastica verde, rossa e bianca, alle pinze, mi sale ancora su per il naso l'odore che permeava il bagno della mansarda in cui lui si dedicava al suo passatempo, un odore acre forse dovuto al liquido in cui immergeva le fotografie. Sono sicuro che tutta l'attrezzatura sia ancora intatta nel solaio della casa dei miei genitori, e non nascondo che a volte mi è anche balenata in testa l'idea di riesumarla e cimentarmi nell'impresa. Poi naturalmente la mia naturale pigrizia mi ha puntualmente distolto dal benché minimo tentativo, e l'avvento della fotografia digitale e della carta fotografica per stampanti casalinghe hanno fatto il resto.

Amo queste foto non solo perché evocatrici di ricordi intensi e piacevoli, ma anche in quanto costituiscono per me una testimonianza preziosa di qualcosa d'invisibile. Vivo queste foto come un'emanazione dolce e amara del loro artefice da poco scomparso. Esse rappresentano infatti lo sguardo di mio padre, e in esse io non vedo solo me stesso, ma il me stesso guardato, selezionato, inquadrato, curato, coccolato dall'occhio di mio padre. Guardandole, posso provare a immedesimarmi in lui nel momento di premere il pulsante, entrare nei suoi panni, essere lui e tentare di immaginare come vedeva quel bambino inquadrato dall'obiettivo, così simile al bambino che ora io stesso fotografo.