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martedì 5 luglio 2011

uno scrigno di sorprese 1/3: aria fresca

Da sinistra: nonno Tavio, Lena, nonna Rina, Secondo.
Fotografia scattata a Monaco nel settembre del 1979.

Come già accennato in un post precedente, alcuni mesi fa ho scoperto, a casa dei miei genitori, una scatola di legno che conteneva le fotografie appartenute a mia nonna Rina. Era rimasta su una scarpiera per non so quanti anni, credo dalla morte di mia nonna, e probabilmente mai nessuno l'aveva aperta, da allora. La maggior parte di esse era stata scattata in occasione di viaggi (probabilmente gite organizzate, nel corso degli anni Settanta-Ottanta, dal centro anziani o dalla parrocchia di Canale), e ritraeva i miei nonni spesso in compagnia della loro coppia di amici Lena e Secondo (anch'essi parte dei miei ricordi d'infanzia, e anch'essi dimenticati fino a oggi). Sfogliare quel mucchio indistinto di polaroid ingiallite e istantanee sghembe o fuori quadro ha rinvigorito l'immaginario visivo e contestuale attraverso cui oggi rievoco nella mente i miei nonni paterni, scomparsi una quindicina d'anni fa, rispolverando in me angoli della memoria fino a oggi accantonati. Sì, perché mi sono accorto che, dopo tutti questi anni (circa metà della mia vita), quell'immaginario era andato cristallizzandosi eccessivamente su un pugno di situazioni e una manciata di fotografie scattate da mio padre principalmente negli anni Ottanta nel cortile della nostra casa, oltre che su uno sparuto gruppetto di ritratti di gioventù che però non fanno direttamente parte dei miei ricordi. Non che le gite dei miei nonni rientrino nei miei ricordi personali, però li hanno sfiorati in qualche modo, mediati da racconti e souvenir. Non so bene come esprimerlo, ma nell'aprire quella scatola di fotografie scattate in giro per l'Italia e occasionalmente per l'Europa, mi è sembrato un po' di liberare i miei nonni da cornici anguste e sempre uguali a se stesse (quelle che li racchiudono insieme a me e ai miei fratelli bambini, ma anche quelle che ne fissano l'esistenza sulla lapide di famiglia), conferendo loro nuova vita, respiro, tridimensionalità. Mi è sembrato di aprire una finestra, fare luce, portare nuova aria.
Sarà fisiologico, ma non mi sembra vero, né giusto, che io ricordi così vagamente, così malamente, i miei nonni. Vorrei avere più memoria, per rendere giustizia all'affetto provato da loro nei miei confronti. Me lo dico soprattutto ora che, da genitore, ho modo di osservare da un'angolazione diversa quale sia il rapporto tra nonno e nipote. E mi rendo anche conto di quanto li conoscessi poco, in fin dei conti.
 Diventa difficile tenere un blog sulla memoria quando ci si trova davanti un magma indistinto pieno di zone d'ombra. Fortunatamente ogni tanto può capitare che ti giunga in aiuto uno scrigno segreto, a rischiarare qualche angolo buio.

martedì 9 novembre 2010

giocobimbi

Com'è naturale che sia, in ogni famiglia si forma, nel corso di decenni di vita comune, una sorta di codice esclusivo immediatamente riconoscibile dai suoi membri e di meno facile comprensione agli orecchi esterni: un "lessico famigliare", per definirlo prendendo a prestito il titolo del celebre romanzo di Natalia Ginzburg. In alcuni casi, a causa del carattere di refrattarietà a mutamenti e correzioni insito nel suo essere radicato nel profondo, tale codice finisce per essere veicolatore di una memoria affettiva e privata. Esso può  infatti mantenere intatto il proprio valore nel linguaggio presente, ma poiché le sue radici affondano quasi sempre in tempi assai più lontani, finisce per rappresentare una sorta di  lungo strascico del passato, una memoria ancora viva e pulsante. In grazia di questa sua virtù, il lessico famigliare di casa Calorio entra di diritto nel novero degli argomenti di questo blog.

Nell'ambito della mia famiglia, il termine forse più peculiare in questo senso è il neologismo "giocobimbi". Esso indica un locale della casa dei miei genitori che spesso, di fronte ad altre persone, mi sono a fatica sforzato di chiamare correttamente "tavernetta" o "cantinetta", quale effettivamente è: ogni volta che mi trovo costretto a usare termini del genere mi sembra di violare qualcosa, di forzare la vera natura, invisibile e puramente emotiva, di quel luogo. Ma soprattutto, mi ritrovo ad applicare una vera e propria "traduzione in italiano" a qualcosa che dentro di me corrisponde a una voce differente.
Probabilmente nelle intenzioni iniziali dei miei genitori quella stanza avrebbe dovuto essere adibita a chissà quali giochi di noi bambini, e ho il sospetto che sia stata l'etichettatrice con cui mio fratello aveva siglato tutte le porte della casa a stigmatizzare così fortemente il locale come "il giocobimbi". Fatto sta che, a dispetto del nome sopravvissuto fino a oggi, non ricordo di aver giocato abitualmente lì dentro, e quel locale situato al piano terra  ha assunto nel corso degli anni altre funzioni più consone alla sua natura.
L'unico giocattolo di cui ricordi la presenza all'interno di quella stanza era una primitiva console che consentiva di giocare a Pong e a qualche altro rudimentale videogame su un televisore in bianco e nero (i miei ricordi al riguardo sono parecchio annebbiati: forse era anche dotata di pistola? Forse c'è stata più di una console? In ogni caso probabilmente era una di queste). Mi resta poi una vaga impressione di giornate estive nelle quali il  giocobimbi forniva un fresco riparo dalla calura estiva... un luogo in cui mangiare una fetta d'anguria dopo aver giocato in  giardino, dentro a una tenda indiana vinta con i punti delle "Girelle" Motta. Ma più che altro, associo il giocobimbi alle riunioni serali degli amici dei miei genitori al calore di una stufetta di ghisa che ora ho nella mia cucina; alle prove del coro gospel in cui cantavano mio padre e mia sorella; e soprattutto a dei pomeriggi d'inverno in compagnia delle mie due nonne: nonna Gemma che stirava nella stanza adiacente, tra i vapori del ferro da stiro dal caratteristico odore; nonna Rina che sedeva con in mano ago, filo e quel curioso uovo di legno, a rammendare calzini.
A fare cose che non riesco a ricordare mentre loro due chiacchieravano intente nelle loro mansioni. Certo, probabilmente si trattava di giochi.

giovedì 28 ottobre 2010

più vicino

Essendo Memoria esterna un blog ideato in divenire, in questi primi post mi trovo inevitabilmente a tracciare alcune coordinate strada facendo. Prendo a spunto questo post per specificarne un paio, per quanto in fin dei conti esse suonino abbastanza scontate.
La prima riguarda l'insieme dei filoni che attraverseranno il blog: uno dei principali, che inauguro qui, vedrà infatti come protagonista la musica, forse il più potente veicolo di ricordi insieme alla fotografia. La seconda concerne invece la struttura vera e propria di questo spazio: come si evince da questo stesso post, la pesca dei ricordi non seguirà il benché minimo andamento cronologico (né si sforzerà a tutti i costi di evitarlo), quindi si passerà tranquillamente dalla mia personale età della pietra all'altroieri, e viceversa.

Tutto questo per dire che l'altro giorno ho ascoltato  una canzone dei Joy Division che per quanto mi piaccia non mi capita esattamente di sentire quotidianamente: Decades, dall'album Closer (1980). Il nesso con la fotografia qui a fianco, che ritrae Silvia in un quartiere di Osaka tra l'estate e l'autunno del 2001, è forse tutt'altro che evidente, ma di fatto Decades, come del resto l'intero album, è una canzone che all'ascolto mi spedisce immediatamente in Giappone.  Come per tutte le melodie assorbite intensivamente in un arco di tempo circoscritto e poi lasciate  in uno stato di semiabbandono quasi intenzionalmente, come per preservare intatto il legame che esse hanno instaurato con una determinata situazione, all'ascolto il rimando è netto e immediato. Closer non è l'unico album ad avere la capacità di rievocare quel viaggio (degli altri due album forse parlerò più avanti, altrimenti mi brucio subito due post), ma  rispetto agli altri ha la particolarità di sovrapporsi esclusivamente a scenari esterni, nella mia mente.

Con mia somma vergogna, fino a quell'epoca conoscevo il gruppo di Ian Curtis solo di nome, per cui prima della partenza il mio amico Fabio me li consigliò registrandomi una cassetta. A parte il fatto che non sono passati nemmeno dieci anni e già sembra di descrivere il Mesozoico, a parlare di un walkman a musicassette, il nastro su cui Fabio mi aveva registrato Closer e Unknown Pleasures fu uno di quelli che mi portai in viaggio, e soprattutto fu quello che ascoltai maggiormente durante il lungo tragitto che ogni mattina, mentre Silvia dormiva beata sul futon, mi portava dall'appartamento che il mio amico Yuji  ci aveva "prestato", alla scuola di giapponese a cui mi ero iscritto. A questo punto devo dire che la memoria gioca brutti scherzi, perché non ricordo né il nome della stazione in cui era situtao l'appartamento, né quello della zona di Osaka in cui si trovava la scuola che frequentavo. In compenso, ricordo benissimo ciò che i sensi mi offrivano mentre di sottofondo suonavano i Joy Division: l'odore delle siepi d'osmanthus, il sapore di cannella lasciatomi in bocca dalle ciambelle  confezionate che inzuppavo nel caffelatte prima di partire, il gracchiare dei corvi appollaiati sugli alberi del parco, il bizzarro cartello che invitava la gente a fare attenzione ai malintenzionati raffigurandoli come un mostricciattolo verde, le scolaresche  di bimbi che durante le giornate di pioggia sfilavano nella via dietro l'ipermercato con gli impermeabili e i gambali gialli, gli studenti liceali che accorrevano a frotte alla stazione, il segnale acustico dei semafori, l'odore denso e umido che emanava da chioschi e ristoranti, i distributori automatici di caffé, i futon stesi a prendere aria sui balconi, l'affollatissimo parcheggio delle biciclette, le persone che leggevano, dormivano e scrivevano messaggi accalcate nel treno.

P.S.: Ho vinto la pigrizia e, dopo qualche piccola ricerca, sono risalito al nome della stazione vicina (una ventina di minuti a piedi) a casa di Yuji: era quella di Ishibashi. Oltre a transitare per quel luogo ogni giorno per raggiungere il centro di Osaka e la mia scuola, esso era il nostro passaggio obbligato per  i sabati sera nella pulsante Amerika-mura o vicecersa per una domenica pomeriggio  tra i quieti boschi di Minoo e le loro scimmie. Quel treno porta dunque nuovi ricordi che forse saranno materia di post futuri.

mercoledì 20 ottobre 2010

l'occhio invisibile


La foto che ho scelto come intestazione di questo blog (così come quella che compare come immagine del profilo) è stata scattata da mio padre nel 1981, all'epoca in cui io avevo la stessa età che ha ora mio figlio Pietro. E' ambientata nel salotto della casa dei miei genitori, e mi ritrae in una delle abitudini della mia infanzia, ovvero quella di sedermi sul davanzale della finestra con la schiena contro il muro e guardare al di fuori. Adoravo il calore che emanava dal termosifone sottostante, a cui si aggiungeva, nelle giornate di sole, il tepore che filtrava dai vetri. Se mi sforzo riesco anche a evocare la ruvida sensazione della tapezzeria che sfregava contro la mia maglia. La cornice della finestra inquadra un panorama familiare ora evolutosi e sovrastato da nuovi alberi cresciuti negli anni. A giudicare dal mio abbigliamento e dal bianco che sembra colorare uno dei tetti che si intravedono in lontananza, direi che era una giornata d'inverno. Chissà se ero in attesa del Natale.

All'epoca, mio padre non aveva soltanto l'hobby di scattare fotografie, ma anche di svilupparle. A distanza di così tanti anni, se penso alle apparecchiature, alle vaschette di plastica verde, rossa e bianca, alle pinze, mi sale ancora su per il naso l'odore che permeava il bagno della mansarda in cui lui si dedicava al suo passatempo, un odore acre forse dovuto al liquido in cui immergeva le fotografie. Sono sicuro che tutta l'attrezzatura sia ancora intatta nel solaio della casa dei miei genitori, e non nascondo che a volte mi è anche balenata in testa l'idea di riesumarla e cimentarmi nell'impresa. Poi naturalmente la mia naturale pigrizia mi ha puntualmente distolto dal benché minimo tentativo, e l'avvento della fotografia digitale e della carta fotografica per stampanti casalinghe hanno fatto il resto.

Amo queste foto non solo perché evocatrici di ricordi intensi e piacevoli, ma anche in quanto costituiscono per me una testimonianza preziosa di qualcosa d'invisibile. Vivo queste foto come un'emanazione dolce e amara del loro artefice da poco scomparso. Esse rappresentano infatti lo sguardo di mio padre, e in esse io non vedo solo me stesso, ma il me stesso guardato, selezionato, inquadrato, curato, coccolato dall'occhio di mio padre. Guardandole, posso provare a immedesimarmi in lui nel momento di premere il pulsante, entrare nei suoi panni, essere lui e tentare di immaginare come vedeva quel bambino inquadrato dall'obiettivo, così simile al bambino che ora io stesso fotografo.

lunedì 11 ottobre 2010

prologo

Inauguro con questo post il mio nuovo blog: Memoria Esterna. E' ancora in fase di costruzione, specialmente per quanto riguarda la veste grafica, quindi per ora prendetelo un po' così com'è... se fossi stato troppo dietro ai particolari, non avrei mai iniziato.

Il nome nasce da un'idea evidentemente non troppo originale, visto che al momento di registrarlo mi sono accorto che su Blogger già un altro utente aveva usato lo stesso titolo basandosi su un'idea sostanzialmente simile. Trattandosi però in quel caso di un blog contenente due soli post e fermo da mesi, mi sono sentito libero di procedere comunque alla registrazione con questo titolo, limitandomi a inserire un trattino nell'indirizzo (quindi occhio: per digitare l'indirizzo di questo blog ci va il trattino tra "memoria" ed "esterna").
Si tratta di uno spazio radicalmente personale nei contenuti (per questo ho deciso di non ricorrere più ad alcun nickname) e che pur nascendo, in un certo senso, da una costola del mio precedente blog, parte da premesse sostanzialmente diverse. Esso avrà in fatti un'identità più  rigida e definita, dato che l'unico imprescindibile comune denominatore ad attraversare ciascun post sarà il tema dei ricordi (ovvero solo uno dei tanti temi occasionalmente trattati nel mio precedente blog).

In questo senso, il titolo di questo blog ne indica una duplice funzione. Innanzitutto quella di  luogo in cui creare un archivio, una sorta di copia di backup della mia memoria: siccome ho poca fiducia nelle mie capacità mnemoniche, sento il bisogno di raccogliere e fissare da qualche parte tutti i ricordi che, di quando in quando, stimolati da una foto, da una musica, da un odore, da una persona, guizzano fuori dall'oblio. In altre parole, voglio salvarli da qualche parte prima che sbiadiscano del tutto, non solo per me ma anche per i miei figli.
La seconda funzione indicata dal titolo del blog è quella di vera e propria esternazione della memoria. Se volessi soltanto raccogliere dei ricordi, potrei limitarmi a tenere un diario privato, senza per forza aprire un blog. Francamente, però, non provo alcun gusto, né interesse, a scrivere senza essere letto da qualcuno, fossero anche quattro gatti i miei lettori. La mia personale sfida è dunque questa: scrivere qualcosa di prettamente personale e vedere se riesco a renderlo interessante nonostante riguardi solo me e pochi altri (e nonostante io abbia vissuto, almeno finora, un'esistenza tutt'altro che avventurosa).

Ed ecco che arrivano gli interrogativi: ne sarò in grado?
E sarò in grado di raggiungere almeno i quattro anni di durata del mio precedente blog?