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mercoledì 4 gennaio 2012

partenze e ritorni (prima parte)

Il 2011 è stato un anno lungo e pieno di cose, e ha segnato per la nostra famigliola una partenza che per me rappresenta, allo stesso tempo, un ritorno. Qualche settimana fa, infatti, abbiamo traslocato, e ora iniziamo il 2012 in un luogo che, per quanto ugualmente familiare, non è l’appartamento che ci eravamo abituati a considerare casa nostra e che Pietro chiamava “casacanale”. Io e Silvia abbiamo vissuto in quell’appartamento per sette anni e mezzo (pressoché esatti, se si esclude la breve e lieta parentesi torinese), ovvero a partire dal giorno successivo al nostro matrimonio. L’abbiamo fatto “nostro” giorno dopo giorno, evento dopo evento, ricordo dopo ricordo. In esso abbiamo vissuto importanti metamorfosi: il passaggio, dopo circa sei anni di fidanzamento, alla quotidianità di una relazione di coppia sotto lo stesso tetto; quello a una realtà lavorativa abbastanza stabile nel mio caso (quando ci siamo insediati io avevo appena iniziato il mio attuale lavoro) e viceversa variegata e instabile, ma non priva di momenti gratificanti e memorabili, nel caso di Silvia; infine, dopo qualche anno, il passaggio allo status di genitori, che di tutte le metamorfosi è stata quella più radicale e significativa.
Quell’appartamento è stato dunque teatro di momenti più che importanti, in un certo senso quasi ingombranti al punto tale da divorare spazio ai ricordi che già giacevano, prima del nostro arrivo, nella polvere annidata tra quelle mura, alla penombra di quelle tapparelle. Sì, perché quelle stanze avevano già ospitato molti altri ricordi appartenenti alla mia infanzia e alla mia adolescenza, essendo state abitate dai miei nonni paterni a partire, credo, dalla metà degli anni Settanta. Eppure, quando un paio di settimane fa ho lasciato quel luogo, mi riusciva difficile vederlo come lo scenario delle serate trascorse dai miei nonni, quando mi addormentavo, mentre mia nonna Rina recitava il rosario, in una brandina accanto a un letto matrimoniale scuro, convesso e insormontabile; dell’odore umido e allo stesso tempo ospitale di quella cucina, con mio nonno Tavio seduto, dopo cena, su una poltrona di pelle a guardare la televisione masticando un blocco di cioccolato fondente preso da una vetrinetta del salotto e tagliato con il coltello del parmigiano; del suono delle unghie del bassotto nero Dick che correva agitato sulle piastrelle; della foto di mia bisnonna appoggiata su un comò di quella che poi è diventata la stanza di Pietro – in quella stessa stanza c’era un divano-letto contro le cui sbarre mi ero sbucciato un piede procurandomi una piccola cicatrice che porto ancora oggi, e in quello stesso letto andavo a dormire ogni tanto, durante gli anni del liceo, per assistere (si fa per dire) mio nonno pochi mesi prima della sua morte, mentre mia nonna era in ospedale per via dell’ictus; della sedia in cucina accanto al frigorifero su cui, anni prima, mio nonno, seduto, mi afferrava stringendomi a sé e dicendomi: “Ti spremo come un limone!”; dello scrittoio con il calamaio e la penna d’oca in salotto, e della sedia a dondolo che si affacciava sul balcone, sotto un quadro dipinto da mia nonna e nei pressi del grande e imponente ritratto di mio bisnonno Bartolomeo in uniforme; dei bicchieri di latta, delle tende ricamate, dell’armadio color turchese decorato da mia nonna nel corridoio d’ingresso, del suono stonato e vibrante dell’orologio a pendolo, delle “gallette digestive” e del fruscio della plastica marrone che le conteneva, delle fiabe popolari di mia nonna e del loro sapore macabro, della costruzione che ospitava il “peso” nella piazza sottostante. Ebbene, tutti questi ricordi, che ora rievoco con un piccolo sforzo volontario della mia memoria, si erano come ritirati nell’ombra mentre camminavo in questi anni per quelle stesse stanze. Essi hanno lasciato spazio alla spensieratezza dei primi anni di matrimonio, a giorni nei quali risuonavano un sacco le canzoni dei Beatles e di Rino Gaetano; alle emozioni, mai provate fino ad allora, dei giorni della prima gravidanza di Silvia, e successivamente a una valanga di ricordi, altrettanto nuovi, di Pietro piccolino, del suo sviluppo e della nostra vita a tre; a innumerevoli manicaretti, serate con gli amici, giornate trascorse a lavorare bevendo tè, a CD sperimentati per la prima volta tra quelle mura; a notti insonni e lacrime versate su quel divano verde muschio e sul tavolo di pietra rosa della cucina, nascondendomi dietro una confezione di cereali per non farmi vedere da mio figlio; e infine ai primi segnali notturni di una nuova nascita, a una carezza a Pietro che dorme accanto alla parete verde scuro della sua stanza, al frastuono del ferro tremolante del portone del garage nella notte silenziosa, per poi riunirci sotto quel tetto, questa volta in quattro con l’arrivo di Gemma, qualche giorno dopo. A questo e tanto, tantissimo altro ancora, mi viene ora da collegare automaticamente l’appartamento di Piazza Marconi, e mi chiedo se, tra sette anni e mezzo, lo stesso meccanismo di sostituzione si attiverà nella casa che ci ospita ora e di cui avrò modo di parlare nel prossimo post.

giovedì 16 giugno 2011

la mamma del ragno

Ieri, nel mucchio del compost da sempre situato in un angolo dell'orto che affianca la casa dei miei genitori, ho trovato una nidiata di topolini di campagna. Erano minuscoli e rosa e squittivano impercettibilmente. Subito mi è balenata l'idea che forse non sarebbe stato tanto saggio tenerli in vita, onde non trovarsi poi la casa invasa dalle prolifiche bestiole... ma ovviamente non ce l'ho fatta: li ho mostrati a Pietro e poi li ho amorevolmente ricoperti.
Qualche settimana fa, in un vaso sul balcone di casa mia, una colomba ha fatto due uova. La tenerezza e l'entusiasmo iniziali (mi piaceva l'idea di mostrarne le evoluzioni a Pietro) si sono presto smorzati quando ci siamo trovati il balcone sommerso (per usare un eufemismo) dalle loro cacche. Nonostante il disagio di dover rinunciare a un balcone e la paura di eventuali malattie di cui i piccioni sono portatori, non ce l'ho fatta a far fuori quei due pulcini sgraziati... quindi abbiamo aspettato un mese affinché prendessero il volo, prima di smantellare tutto quanto.
Se trovo un ragno o un insetto sgradito in casa, invece di ucciderlo cerco sempre di accompagnarlo fuori dalla finestra, nei limiti del possibile. Se lo uccido, provo comunque un piccolo (come una punta d'insetto, per l'appunto) senso di colpa, leggero ed effimero ma immancabile.
Tutto questo per dire che il pensiero di uccidere degli animali, anche i meno simpatici, anche quando lo richiederebbe il buon senso, è per me qualcosa di doloroso e mi costa un certo sforzo, a meno che la paura (vedi vespe e calabroni - di cui ho il terrore) o il fastidio non superino di gran lunga la pietà. Mi sono chiesto da dove abbiano origine queste mie remore. Certo, da bambino (e un po' ancora adesso) ero un grande appassionato di animali, ho letto e riletto centinaia di volte libri sull'argomento, ero addirittura iscritto al WWF, ho come tutti subìto gli effetti dell'edulcorata antropomorfizzazione disneyana, eccetera eccetera. Mi piace tuttavia pensare che tale senso di colpa tutto abbia avuto origine da un unico episodio.
Ricordo infatti che da piccolo, credo tra i tre e i cinque anni, mi piaceva uccidere i ragni. Ho una vaga memoria della sensazione e del rumore secco e rimbombante prodotto nello schiacciarne uno con la scarpina sul pavimento arancione del bagno del piano di sotto. Mi trovavo insieme a mia nonna Gemma: lei li tirava giù dal soffitto con la scopa, mentre io avevo il compito di rincorrerli e freddarli. Era divertente, ma poi questo mio piacere fu frenato, credo non molto tempo dopo, da un piccolo evento apparentemente insignificante (ma il fatto stesso che me ne ricordi a distanza di trent'anni non ne indica forse l'importanza?). Ebbene, mi trovavo vicino al termosifone del bagno del piano di sopra, tra il blu scuro delle piastrelle e il bianco delle tende. Lì vidi un ragno e feci per ammazzarlo, quando mia madre mi disse: "Se lo uccidi, poi cosa penserà la sua mamma, non vedendolo più tornare?". Questa considerazione mi diede molto da riflettere. Il pensiero della mamma ragno che se ne stava nella sua tela ad attendere invano il ritorno del figlio instillò in me una sorta di malessere, lieve ma ben radicato.  Quasi un riflesso pavloviano, l'effetto di una cura Ludovico. Persino negli anni del tipico sadismo infantile credo di non aver mai fatto del male a qualche animale (per lo meno volutamente - e qui ci sarebbe materia per un altro post).
Fanno eccezione le solite povere mosche, le zanzare e qualche bruco.

mercoledì 8 giugno 2011

memorie flash (2) - via roma, angolo via ciriagno


L'angusto corridoio d'ingresso dell'appartamento in Via Roma (angolo Via Ciriagno) nel quale andarono a passare i loro ultimi anni i miei bisnonni Minot e Delina, genitori del mio nonno materno, dopo una vita trascorsa a Mulino Galletto. Ricordo, in quell'ingresso dalle tinte biancastre, la figura imponente di mio bisnonno, un giorno che andai a trovarlo insieme a nonno Berto. Nonno Minot era stato mugnaio, aveva delle mani enormi e nodose, un volto felino e occhi di ghiaccio. Ricordo molto poco di lui. Forse mi incuteva anche un po' di timore.
Sotto il loro appartamento, in un piccolo palazzo che già da oltre un ventennio, forse quasi un trentennio, è stato abbattuto per far posto a un edificio più grande e moderno, c'era un negozio di alimentari che si affacciava sull'officina Visca, al posto della quale ora c'è un Maxisconto. Ricordo che accompagnai mio nonno Berto in quel negozietto, e lui comprò del prosciutto cotto avvolto in carta gialla. Ricordo che quella volta appresi che del prosciutto non si mangia solo il grasso, come invece facevo io.


Le due immagini accanto mostrano un dettaglio del volto e uno delle mani di nonno Minot (Domenico Bernardo Binello, padre del mio nonno materno), in due fotografie scattate da mio padre nel 1981.

martedì 31 maggio 2011

memorie flash (1) - la casa delle pumpette

Ci sono alcuni ricordi di infanzia che sono troppo vaghi, frammentari e scollegati per riuscire a inserirli in un discorso di ampio respiro. Per quanto mi sforzi di ricordare, di connetterli ad altro, se ne stanno lì, a galleggiare come isole nel nulla, prive di ponti che consentano una visione d'insieme. Sono frammenti che difficilmente dimenticherò perché ormai sono, così come sono, impressi a fuoco nella mia memoria. Sebbene il tempo abbia eroso tutto intorno la terra su cui poggiavano, essi ormai se ne stanno lì, induriti, fossilizzati, eterni e soli. Ma chissà che, trascrivendoli, non riportino a galla qualcos'altro...

Ecco dunque il primo :

L'appartamento di due vecchine amiche di mia nonna Rina, dette in piemontese "Pumpette", che abitavano in un punto imprecisato di Via Mazzini, vicino alla casa con le due statuette di Topolino sul muretto che fu la casa dell'infanzia di mio padre. Ricordo che mia nonna qualche volta mi ci portò, da bambino, e mi tornano alla memoria un arredamento antico, mobili scuri, un soffitto basso, caramelle di zucchero e un colore aleggiante tra il turchese e il verde pallido. Non so perché, ma se mi sforzo di collocare queste visite, mi viene in bocca un sapore natalizio, un'atmosfera dickensiana, la nebbia, il freddo, la luce dei lampioni nel pomeriggio che è già sera. Una Canale quasi vittoriana tanto sembra distante nello spazio e nel tempo. Chissà quanto c'è di autentico, e quanto invece è frutto di contaminazione, di sovrapposizione e stratificazione, in questi sapori?

giovedì 24 marzo 2011

il salice piangente e la storica invasione

1982, io abbracciato al salice.
Come accade per le musiche, capita che alcuni odori accompagnino esperienze particolarmente intense della nostra vita e che pertanto, a distanza di anni, sia possibile evocarne con la mente un ricordo, per quanto vago e difficile da definire, direttamente nelle nostre narici. Alcuni di questi odori, se incontrati a distanza di anni, risvegliano memorie piacevoli (nel mio caso, penso al profumo che aleggiava nel laboratorio della panetteria Scaravaglio quando il panettiere mi permetteva di guardarlo lavorare mentre mia madre faceva la spesa nel negozio adiacente). Talvolta, tuttavia, accade che certi odori rimandino a esperienze meno simpatiche.
Un odore che non sento ormai da anni ma che saprei disegnare perfettamente a memoria se solo gli odori si potessero rappresentare graficamente, è quello dolciastro che aleggiava a casa dei miei genitori durante la storica invasione del Cossus cossus, un episodio entrato ormai  a far parte della mitologia privata di casa Calorio. Allora, ai tempi delle scuole elementari (credo fosse il 1985 o 1986, a giudicare dalle foto di famiglia scattate in giardino), non avevo la minima idea di quale fosse il nome dell'orrido invasore, né ce l'avevo fino a dieci minuti fa, ovvero prima di indagare con l'aiuto di Google, ma il suo aspetto è sempre stato ben scolpito nella mia mente, sebbene siano trascorsi oltre vent'anni da quei giorni. Rivederne le foto ora su questa pagina web, è stato un po' come ritrovare un vecchio amico. La testa nera, la macchia scura sulla nuca, la coriacea pelle color prugna del dorso, il ventre giallo decorato di puntini, i peli ispidi... è esattamente l'alieno misterioso dei miei ricordi.
Ma veniamo al dunque.
 
L'orrido invasore (foto scaricata dal web)
Dovete sapere che, quando ero bambino, in giardino avevamo un bellissimo salice piangente. Ricordo ancora sulla pelle dei palmi la sensazione della corteccia ruvida, nell'appoggiarmi al tronco per giocare a nascondino o a chissà che altro. E ricordo distintamente il fruscio della chioma che ondeggiava nelle giornate ventose, così come quello dei miei piedi di bambino che calpestavano le foglie secche a fine estate. Tuttavia, i giorni di gloria di quel salice ebbero fine quando esso divenne preda e dimora della larva di un lepidottero chiamato appunto Cossus cossus o, più comunemente, "Rodilegno". Incapace di difendersi, l'albero venne divorato dall'interno da quelle grosse larve violacee grandi come il dito di una mano, finché mio padre non decise di abbatterlo. E così non avevamo più il nostro bell'albero, ma la storia non si esaurisce qui. Perché se è vero che forse capitò qualche volta che alcuni bruchi intraprendenti si avventurassero fin sul balcone di casa usando come scala le fronde piangenti,  fu dopo l'abbattimento del salice che  il racconto prese una piega che rasentava il film dell'orrore. Come dicevo, mio padre abbatté l'albero e, con l'aiuto del mio fratello maggiore, ne fece legna per il caminetto. Quando la pianta fu fatta a pezzi, iniziò la diaspora dei rodilegno per il giardino e sui muri della casa, ma la situazione peggiorò ulteriormente allorché portammo la legna tagliata nel sottoscala interno alla casa. Dentro quei piccoli cavalli di Troia si nascondevano ancora dei bruchi sopravvissuti, i quali presero a invadere l'abitazione dall'interno. A quel punto divenne una specie di incubo. Ne trovavi veramente ovunque. Tra gli episodi più eclatanti, mia sorella che, avvistandone uno sul pavimento della zona notte lo scambiò per un pastello e quasi lo raccolse, ma soprattutto mio fratello che ne trovò uno - udite! udite! - nella zuppa inglese. Personalmente ne ero anche incuriosito: ricordo che provai a stuzzicarne uno con un cacciavite, e che questo si attaccò aggressivamente alla punta di metallo con le tenaglie. Ricordo che un altro spruzzò un liquido nerastro, forse per difendersi. Ricordo che uno provai ad allevarlo in un barattolo e che lo portai anche a scuola... ma poi ovviamente morì, così come il suo compare che, con sadismo infantile e un po' rancoroso, io e mio fratello bruciammo vivo nell'alcol.
Ma soprattutto, ricordo benissimo l'odore nauseabondo che emanavano quegli orribili - ma pur sempre affascinanti, agli occhi di un bambino appassionato di animali e di mostri - larvoni viola. Un odore che non ci lasciò del tutto finché non avemmo bruciato l'ultimo pezzo di legno. Qualche tempo fa, non so più in che occasione, ricordo di aver sentito un odore simile, ed è subito partito il flashback
Segue piccola galleria commemorativa del povero albero.

1982, io con l'albero alle spalle.

1982, insieme a mia sorella tra le fronde.

1982, con i miei fratelli e l'albero in un pomeriggio d'inverno.
1983, mia madre con la famiglia di Mimi, la mia zia paterna, e la nostra cagna Mirka, al fresco dell'albero in un pomeriggio d'estate.


giovedì 30 dicembre 2010

il fantasma dei natali passati

Ecco, col consueto ritardo, alcune reminiscenze dei miei trentadue natali passati. Senza entrare troppo nel dettaglio, visto che ora non ho molto tempo e per di più non voglio bruciarmi gli argomenti per i Natali futuri.

Nel primo Natale che ricordi compare un robot di plastica rosso, arancione e blu scuro, con una trivella al posto del braccio. Quanti anni avrò avuto? Lo scenario è la cucina arancione della casa dei miei genitori, e a fuoco c'è quel soprammobile di - credo - peltro a forma di fagiano. Non ricordo quando ho smesso di credere a babbo Natale, ma ho un ricordo di me in salotto che guardo dalla finestra verso il cancello di Via Mompissano da cui sarebbe presumibilmente arrivato. Mi rivedo inoltre interrogarmi di fronte al presepe su quali fossero i rispettivi ruoli di Babbo Natale e Gesù Bambino. Ricordo una recita di Natale dell'asilo, con un foglietto da imparare a memoria seduto sugli scalini del salotto. Non ricordo di regali aperti la mattina del 25, perché per me il Natale è il rito familiare della sera della vigilia, tramandato quasi intatto fino allo scorso anno. 
Dopo la cena che noi bambini consumavamo in fretta e furia lamentandoci della calma snervante con cui mangiava mio padre (che probabilmente lo faceva apposta), mia madre lavava i piatti, mentre noi forse davamo una mano a spreparare al solo scopo di anticipare il più possibile l'apertura dei regali. Dopodiché si saliva tutti in macchina a fare il giro degli auguri ai nonni, prima quelli paterni, poi quelli materni. Durante gli anni del liceo, le visite si sono dimezzate  riducendosi solo ai nonni materni, e più passavano gli anni, più i miei fratelli e io stavamo stretti sul sedile posteriore dell'auto. Infine si tornava a casa, dove mio padre spezzava degli stuzzicadenti e decretava l'ordine dei turni dell'apertura dei regali in base alla lunghezza dello stecco pescato. Senonché, puntualmente sul più bello, proprio durante il tanto agognato spacchettamento, suonava il citofono o il campanello a interrompere il tutto, e noi bambini friggevamo. Un paio di volte dev'essere stato Ettore, il vicino di casa, venuto a farci gli auguri. Da allora, ogni volta che la sera della vigilia suonava il campanello, tutti esclamavano alzando gli occhi al cielo: "Ettore!".

sabato 20 novembre 2010

una giornata al mare

I miei ricordi legati al mare raramente risalgono all'infanzia. Mi vengono in mente episodi che appartengono agli anni del liceo, altri collocati ai tempi dell'università, ma il mare vissuto da bambino per me è un ricordo abbastanza indistinto, e faccio molta fatica a pescare dal caos qualcosa di definito. Le uniche cose che riesco a mettere a fuoco sono delle caramelle gommose a forma di orsetto, dei braccioli arancioni, io che resto con mio nonno Berto mentre mia madre nuota in lontananza. Ma si tratta di cocci, più che di ricordi. Questo perché mio padre prediligeva la montagna, e le gite al mare erano per me una rarità, specialmente dalle elementari in avanti.
La giornata del mare che dà il titolo a questo post, infatti, riguarda tempi ben più recenti.
Qualche giorno fa sono stato a Varazze con Silvia e i bimbi, e la domenica abbiamo pranzato fuori. Io ho ordinato dei totani alla griglia, e più tardi, mentre immerso nella desolazione invernale della spiaggia che affianca la "casa araba" sentivo ancora in bocca il loro sapore, mi è tornato in mente quel giorno di ormai quasi tre anni fa in cui con i miei genitori, Silvia e un Pietro ancora piccolo, trascorsi una fugace giornata al mare.
Anche quel giorno era inverno (si era intorno a febbraio, credo) e c'era brutto tempo, e anche quel giorno ordinai, in un diverso ristorante situato sul lungomare di Varazze, totani alla griglia. Mio padre ordinò due bottiglie di un qualche vino bianco ligure, e le consumammo quasi interamente io e lui. A dire la verità, non compresi bene perché mai mio padre avesse ordinato la seconda bottiglia (bevevamo solo in tre perché Silvia era in allattamento, quindi una bottiglia sarebbe stata sufficiente), e soprattutto perché volle finirla a tutti i costi riempendomi il bicchiere fino all'orlo a fine pasto, ma la sensazione di quel momento era un po' quella della canzone di Paolo Conte, nel punto in cui il cantautore astigiano recita che "il vino bianco è fresco e va giù bene come questo cielo grande su di noi". Anche se il cielo di Wanda io me lo immagino azzurro, mentre dalla finestra di quel locale dai toni verde scuro si affacciavano soltanto nuvole basse e plumbee.
Quel pomeriggio non facemmo molto a causa del brutto tempo (a dispetto del quale mio padre ci offrì, come fossimo dei bambini, un ottimo gelato), ma ricordo con piacere quella lieve sensazione di ebrezza ed euforia che ha il potere miracoloso di far sentire vicine le persone. In fin dei conti, non mi è capitato molto spesso di ritrovarmi brillo insieme a mio padre, ma colloco quelle poche occasioni tra i momenti belli della mia vita.

martedì 9 novembre 2010

giocobimbi

Com'è naturale che sia, in ogni famiglia si forma, nel corso di decenni di vita comune, una sorta di codice esclusivo immediatamente riconoscibile dai suoi membri e di meno facile comprensione agli orecchi esterni: un "lessico famigliare", per definirlo prendendo a prestito il titolo del celebre romanzo di Natalia Ginzburg. In alcuni casi, a causa del carattere di refrattarietà a mutamenti e correzioni insito nel suo essere radicato nel profondo, tale codice finisce per essere veicolatore di una memoria affettiva e privata. Esso può  infatti mantenere intatto il proprio valore nel linguaggio presente, ma poiché le sue radici affondano quasi sempre in tempi assai più lontani, finisce per rappresentare una sorta di  lungo strascico del passato, una memoria ancora viva e pulsante. In grazia di questa sua virtù, il lessico famigliare di casa Calorio entra di diritto nel novero degli argomenti di questo blog.

Nell'ambito della mia famiglia, il termine forse più peculiare in questo senso è il neologismo "giocobimbi". Esso indica un locale della casa dei miei genitori che spesso, di fronte ad altre persone, mi sono a fatica sforzato di chiamare correttamente "tavernetta" o "cantinetta", quale effettivamente è: ogni volta che mi trovo costretto a usare termini del genere mi sembra di violare qualcosa, di forzare la vera natura, invisibile e puramente emotiva, di quel luogo. Ma soprattutto, mi ritrovo ad applicare una vera e propria "traduzione in italiano" a qualcosa che dentro di me corrisponde a una voce differente.
Probabilmente nelle intenzioni iniziali dei miei genitori quella stanza avrebbe dovuto essere adibita a chissà quali giochi di noi bambini, e ho il sospetto che sia stata l'etichettatrice con cui mio fratello aveva siglato tutte le porte della casa a stigmatizzare così fortemente il locale come "il giocobimbi". Fatto sta che, a dispetto del nome sopravvissuto fino a oggi, non ricordo di aver giocato abitualmente lì dentro, e quel locale situato al piano terra  ha assunto nel corso degli anni altre funzioni più consone alla sua natura.
L'unico giocattolo di cui ricordi la presenza all'interno di quella stanza era una primitiva console che consentiva di giocare a Pong e a qualche altro rudimentale videogame su un televisore in bianco e nero (i miei ricordi al riguardo sono parecchio annebbiati: forse era anche dotata di pistola? Forse c'è stata più di una console? In ogni caso probabilmente era una di queste). Mi resta poi una vaga impressione di giornate estive nelle quali il  giocobimbi forniva un fresco riparo dalla calura estiva... un luogo in cui mangiare una fetta d'anguria dopo aver giocato in  giardino, dentro a una tenda indiana vinta con i punti delle "Girelle" Motta. Ma più che altro, associo il giocobimbi alle riunioni serali degli amici dei miei genitori al calore di una stufetta di ghisa che ora ho nella mia cucina; alle prove del coro gospel in cui cantavano mio padre e mia sorella; e soprattutto a dei pomeriggi d'inverno in compagnia delle mie due nonne: nonna Gemma che stirava nella stanza adiacente, tra i vapori del ferro da stiro dal caratteristico odore; nonna Rina che sedeva con in mano ago, filo e quel curioso uovo di legno, a rammendare calzini.
A fare cose che non riesco a ricordare mentre loro due chiacchieravano intente nelle loro mansioni. Certo, probabilmente si trattava di giochi.

mercoledì 20 ottobre 2010

l'occhio invisibile


La foto che ho scelto come intestazione di questo blog (così come quella che compare come immagine del profilo) è stata scattata da mio padre nel 1981, all'epoca in cui io avevo la stessa età che ha ora mio figlio Pietro. E' ambientata nel salotto della casa dei miei genitori, e mi ritrae in una delle abitudini della mia infanzia, ovvero quella di sedermi sul davanzale della finestra con la schiena contro il muro e guardare al di fuori. Adoravo il calore che emanava dal termosifone sottostante, a cui si aggiungeva, nelle giornate di sole, il tepore che filtrava dai vetri. Se mi sforzo riesco anche a evocare la ruvida sensazione della tapezzeria che sfregava contro la mia maglia. La cornice della finestra inquadra un panorama familiare ora evolutosi e sovrastato da nuovi alberi cresciuti negli anni. A giudicare dal mio abbigliamento e dal bianco che sembra colorare uno dei tetti che si intravedono in lontananza, direi che era una giornata d'inverno. Chissà se ero in attesa del Natale.

All'epoca, mio padre non aveva soltanto l'hobby di scattare fotografie, ma anche di svilupparle. A distanza di così tanti anni, se penso alle apparecchiature, alle vaschette di plastica verde, rossa e bianca, alle pinze, mi sale ancora su per il naso l'odore che permeava il bagno della mansarda in cui lui si dedicava al suo passatempo, un odore acre forse dovuto al liquido in cui immergeva le fotografie. Sono sicuro che tutta l'attrezzatura sia ancora intatta nel solaio della casa dei miei genitori, e non nascondo che a volte mi è anche balenata in testa l'idea di riesumarla e cimentarmi nell'impresa. Poi naturalmente la mia naturale pigrizia mi ha puntualmente distolto dal benché minimo tentativo, e l'avvento della fotografia digitale e della carta fotografica per stampanti casalinghe hanno fatto il resto.

Amo queste foto non solo perché evocatrici di ricordi intensi e piacevoli, ma anche in quanto costituiscono per me una testimonianza preziosa di qualcosa d'invisibile. Vivo queste foto come un'emanazione dolce e amara del loro artefice da poco scomparso. Esse rappresentano infatti lo sguardo di mio padre, e in esse io non vedo solo me stesso, ma il me stesso guardato, selezionato, inquadrato, curato, coccolato dall'occhio di mio padre. Guardandole, posso provare a immedesimarmi in lui nel momento di premere il pulsante, entrare nei suoi panni, essere lui e tentare di immaginare come vedeva quel bambino inquadrato dall'obiettivo, così simile al bambino che ora io stesso fotografo.