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mercoledì 22 febbraio 2012

partenze e ritorni (seconda parte)

La casa che ci ospita ora, dicevo l'ultima volta, è la casa in cui sono nato e ho vissuto per circa ventisei anni della mia vita, un arco di tempo decisamente maggiore di quello trascorso nell'alloggio di piazza Marconi dopo il matrimonio. Sarebbe quindi impossibile elencare tutti i ricordi che essa mi riporta alla mente, perché se nel caso dell'appartamento dei miei nonni essi erano stati setacciati dal tempo e delimitati dalla loro collocazione in un passato relativamente remoto e conclusosi per sempre, qui essi si inseriscono, in quantità spropositata, in un flusso praticamente continuo che scaturisce dai miei primi vagiti e scorre per tutta la mia infanzia, la mia adolescenza, la mia giovinezza, senza arrestarsi nemmeno negli anni della mia assenza (non solo perché facevo spesso visita ai miei genitori, ma anche perché già da qualche anno lavoravo qui in mansarda, durante il giorno).
In questo caso, almeno per il momento, il processo del ricordo non rappresenta uno sforzo cosciente e volontario, bensì un germogliare spontaneo, fisiologico, organico. Talvolta piacevole, talvolta doloroso (e la parte dolente riguarda soprattutto le stanze nelle quali il ricordo si fa più crudo e manifesto: quelle che più sono rimaste simili, nell'arredamento, a com'erano fino a un paio d'anni fa). Onestamente, prima di tornare qui, temevo che sarebbe stata troppo dura convivere coi brutti ricordi, ma ora che sono trascorsi più di due mesi dal nostro insediamento, devo dire che è superiore la gioia di vedere queste mura riempirsi nuovamente di vita e nuovi ricordi. La mancanza resta, ma il triste e vertiginoso senso di vuoto che mi è capitato di provare le volte che, lo scorso anno, mi sono ritrovato solo in tutta la casa, viene ora riempito dalla presenza di Pietro e Gemma.
Quanto ai piacevoli ricordi di un passato assai più remoto, essi fioccano di continuo mentre poco per volta sistemo oggetti nel solaio, nella mansarda, in cantina. In questi ultimi mesi ne ho rinvenuti di piccoli e grandi, talvolta mai visti (un quaderno contenente la contabilità dei miei nonni paterni, la cartella di mia madre con i suoi quaderni di bambina...), talvolta dimenticati o creduti perduti. Ho addirittura esplorato anfratti nei quali forse non mi ero mai addentrato fino in fondo in oltre trent'anni di frequentazione di questi ambienti, come il lungo ripostiglio della mansarda il cui ingresso è rimasto ostruito da varie cianfrusaglie sin dai primi anni Ottanta. Ecco, forse è proprio questo il punto: sto imparando a vivere consciamente questo spazio, con curiosità. A prenderne consapevolezza quando finora l'avevo sempre vissuto in maniera passiva.

mercoledì 4 gennaio 2012

partenze e ritorni (prima parte)

Il 2011 è stato un anno lungo e pieno di cose, e ha segnato per la nostra famigliola una partenza che per me rappresenta, allo stesso tempo, un ritorno. Qualche settimana fa, infatti, abbiamo traslocato, e ora iniziamo il 2012 in un luogo che, per quanto ugualmente familiare, non è l’appartamento che ci eravamo abituati a considerare casa nostra e che Pietro chiamava “casacanale”. Io e Silvia abbiamo vissuto in quell’appartamento per sette anni e mezzo (pressoché esatti, se si esclude la breve e lieta parentesi torinese), ovvero a partire dal giorno successivo al nostro matrimonio. L’abbiamo fatto “nostro” giorno dopo giorno, evento dopo evento, ricordo dopo ricordo. In esso abbiamo vissuto importanti metamorfosi: il passaggio, dopo circa sei anni di fidanzamento, alla quotidianità di una relazione di coppia sotto lo stesso tetto; quello a una realtà lavorativa abbastanza stabile nel mio caso (quando ci siamo insediati io avevo appena iniziato il mio attuale lavoro) e viceversa variegata e instabile, ma non priva di momenti gratificanti e memorabili, nel caso di Silvia; infine, dopo qualche anno, il passaggio allo status di genitori, che di tutte le metamorfosi è stata quella più radicale e significativa.
Quell’appartamento è stato dunque teatro di momenti più che importanti, in un certo senso quasi ingombranti al punto tale da divorare spazio ai ricordi che già giacevano, prima del nostro arrivo, nella polvere annidata tra quelle mura, alla penombra di quelle tapparelle. Sì, perché quelle stanze avevano già ospitato molti altri ricordi appartenenti alla mia infanzia e alla mia adolescenza, essendo state abitate dai miei nonni paterni a partire, credo, dalla metà degli anni Settanta. Eppure, quando un paio di settimane fa ho lasciato quel luogo, mi riusciva difficile vederlo come lo scenario delle serate trascorse dai miei nonni, quando mi addormentavo, mentre mia nonna Rina recitava il rosario, in una brandina accanto a un letto matrimoniale scuro, convesso e insormontabile; dell’odore umido e allo stesso tempo ospitale di quella cucina, con mio nonno Tavio seduto, dopo cena, su una poltrona di pelle a guardare la televisione masticando un blocco di cioccolato fondente preso da una vetrinetta del salotto e tagliato con il coltello del parmigiano; del suono delle unghie del bassotto nero Dick che correva agitato sulle piastrelle; della foto di mia bisnonna appoggiata su un comò di quella che poi è diventata la stanza di Pietro – in quella stessa stanza c’era un divano-letto contro le cui sbarre mi ero sbucciato un piede procurandomi una piccola cicatrice che porto ancora oggi, e in quello stesso letto andavo a dormire ogni tanto, durante gli anni del liceo, per assistere (si fa per dire) mio nonno pochi mesi prima della sua morte, mentre mia nonna era in ospedale per via dell’ictus; della sedia in cucina accanto al frigorifero su cui, anni prima, mio nonno, seduto, mi afferrava stringendomi a sé e dicendomi: “Ti spremo come un limone!”; dello scrittoio con il calamaio e la penna d’oca in salotto, e della sedia a dondolo che si affacciava sul balcone, sotto un quadro dipinto da mia nonna e nei pressi del grande e imponente ritratto di mio bisnonno Bartolomeo in uniforme; dei bicchieri di latta, delle tende ricamate, dell’armadio color turchese decorato da mia nonna nel corridoio d’ingresso, del suono stonato e vibrante dell’orologio a pendolo, delle “gallette digestive” e del fruscio della plastica marrone che le conteneva, delle fiabe popolari di mia nonna e del loro sapore macabro, della costruzione che ospitava il “peso” nella piazza sottostante. Ebbene, tutti questi ricordi, che ora rievoco con un piccolo sforzo volontario della mia memoria, si erano come ritirati nell’ombra mentre camminavo in questi anni per quelle stesse stanze. Essi hanno lasciato spazio alla spensieratezza dei primi anni di matrimonio, a giorni nei quali risuonavano un sacco le canzoni dei Beatles e di Rino Gaetano; alle emozioni, mai provate fino ad allora, dei giorni della prima gravidanza di Silvia, e successivamente a una valanga di ricordi, altrettanto nuovi, di Pietro piccolino, del suo sviluppo e della nostra vita a tre; a innumerevoli manicaretti, serate con gli amici, giornate trascorse a lavorare bevendo tè, a CD sperimentati per la prima volta tra quelle mura; a notti insonni e lacrime versate su quel divano verde muschio e sul tavolo di pietra rosa della cucina, nascondendomi dietro una confezione di cereali per non farmi vedere da mio figlio; e infine ai primi segnali notturni di una nuova nascita, a una carezza a Pietro che dorme accanto alla parete verde scuro della sua stanza, al frastuono del ferro tremolante del portone del garage nella notte silenziosa, per poi riunirci sotto quel tetto, questa volta in quattro con l’arrivo di Gemma, qualche giorno dopo. A questo e tanto, tantissimo altro ancora, mi viene ora da collegare automaticamente l’appartamento di Piazza Marconi, e mi chiedo se, tra sette anni e mezzo, lo stesso meccanismo di sostituzione si attiverà nella casa che ci ospita ora e di cui avrò modo di parlare nel prossimo post.

lunedì 11 luglio 2011

uno scrigno di sorprese 2/3: il funerale di nonno giacomo

La scatola di fotografie di cui ho scritto nell'ultimo post conteneva un'altra sorpresa, ancora più inattesa. In un piccolo album dalla copertina nera, era infatti racchiuso un sintetico servizio fotografico del funerale di mio bisnonno Giacomo (Giacomo Raimondo), padre di mia nonna Rina. Realizzato da un fotografo professionista (sull'etichetta è indicato Servizi Fotografici A. Rafele, Piazza G. Grosso 2, Cambiano) proprio come si usa tutt'oggi per i matrimoni, testimonia un'usanza adesso perduta e per me inimmaginabile.
La selezione di fotografie che espongo qui sotto fu scattata il 27 aprile del 1957, e mostra il corteo che, dall'abitazione di mio bisnonno (il piccolo palazzo giallo in piazza Marconi che vedo oggi dalla finestra della mia cucina e che attualmente ospita un'erboristeria) prosegue fino alla chiesa parrocchiale. Alla testa del corteo si riconoscono la moglie Caterina Mulasso, i miei nonni, e infine mio padre e mia zia Margherita ancora bambini.
Sono per me fotografie molto preziose, per diversi motivi. Innazitutto, esse costituiscono una piccola testimonianza visiva della Canale d'allora: vi si intravedono infatti alcune abitazioni non ancora, o almeno solo in parte, rimpiazzate da orrendi palazzi piastrellati anni Sessanta-Settanta; in Via Roma (angolo Via Garibaldi) si nota l'insegna di un negozio di cappelli e calzature (Barbisio), mentre sull'altro lato compare un manifesto d'epoca che pubblicizza la tintura per indumenti "Super Iride"; infine, è evidente la diversa conformazione del piazzale della Parrocchia di S.Vittore (stando a quanto dice mia madre, la casa che si vede sullo sfondo nell'ultima foto, al posto della quale ora c'è la cartoleria Marchisio, apparteneva a un sarto di nome Arturo, amico di mio nonno Berto).
Ciò che tuttavia emerge con maggiore evidenza da tali fotografie sono i radicali cambiamenti, verificatisi nell'arco di poco più di cinquant'anni (ma anche molto meno, perché nei miei trent'anni di vita non ho alcun ricordo del genere) negli usi e nei costumi della popolazione canalese: la relativa imponenza del corteo, preceduto da bambini, suore, frati e donne col velo, così come l'importanza stessa attribuita al funerale, tale da giustificare addirittura un servizio fotografico, sono indicatori di quanto diversamente fossero concepite le dimensioni religiosa e comunitaria, e di quanto maggiore rispetto a oggi fosse il ruolo che esse esercitavano nella vita della collettività paesana.
Per finire, queste fotografie raffigurano un evento importante della storia della mia famiglia, mostrandomi com'erano allora i protagonisti che lo subirono. Io non conobbi mai mio bisnonno Giacomo, che morì di tumore alla prostata vent'anni prima della mia nascita, ma ne presi il nome e ne sentii spesso parlare da mia nonna e da mio padre, che lo descrivevano come un uomo forte, amato e rispettato. Di suo sopravvive oggi il ciabòt che egli stesso costruì e che uso ancora oggi.
Scrive di lui mio padre, in una nota dell'albero genealogico:

Uomo molto energico e di bell'aspetto. Iniziò l'attività di maniscalco.
Poi passò al commercio di carbone e di tualete. Molto amato dai
compaesani. Perse una figlia dell'età di 16 anni per linfoma.









martedì 5 luglio 2011

uno scrigno di sorprese 1/3: aria fresca

Da sinistra: nonno Tavio, Lena, nonna Rina, Secondo.
Fotografia scattata a Monaco nel settembre del 1979.

Come già accennato in un post precedente, alcuni mesi fa ho scoperto, a casa dei miei genitori, una scatola di legno che conteneva le fotografie appartenute a mia nonna Rina. Era rimasta su una scarpiera per non so quanti anni, credo dalla morte di mia nonna, e probabilmente mai nessuno l'aveva aperta, da allora. La maggior parte di esse era stata scattata in occasione di viaggi (probabilmente gite organizzate, nel corso degli anni Settanta-Ottanta, dal centro anziani o dalla parrocchia di Canale), e ritraeva i miei nonni spesso in compagnia della loro coppia di amici Lena e Secondo (anch'essi parte dei miei ricordi d'infanzia, e anch'essi dimenticati fino a oggi). Sfogliare quel mucchio indistinto di polaroid ingiallite e istantanee sghembe o fuori quadro ha rinvigorito l'immaginario visivo e contestuale attraverso cui oggi rievoco nella mente i miei nonni paterni, scomparsi una quindicina d'anni fa, rispolverando in me angoli della memoria fino a oggi accantonati. Sì, perché mi sono accorto che, dopo tutti questi anni (circa metà della mia vita), quell'immaginario era andato cristallizzandosi eccessivamente su un pugno di situazioni e una manciata di fotografie scattate da mio padre principalmente negli anni Ottanta nel cortile della nostra casa, oltre che su uno sparuto gruppetto di ritratti di gioventù che però non fanno direttamente parte dei miei ricordi. Non che le gite dei miei nonni rientrino nei miei ricordi personali, però li hanno sfiorati in qualche modo, mediati da racconti e souvenir. Non so bene come esprimerlo, ma nell'aprire quella scatola di fotografie scattate in giro per l'Italia e occasionalmente per l'Europa, mi è sembrato un po' di liberare i miei nonni da cornici anguste e sempre uguali a se stesse (quelle che li racchiudono insieme a me e ai miei fratelli bambini, ma anche quelle che ne fissano l'esistenza sulla lapide di famiglia), conferendo loro nuova vita, respiro, tridimensionalità. Mi è sembrato di aprire una finestra, fare luce, portare nuova aria.
Sarà fisiologico, ma non mi sembra vero, né giusto, che io ricordi così vagamente, così malamente, i miei nonni. Vorrei avere più memoria, per rendere giustizia all'affetto provato da loro nei miei confronti. Me lo dico soprattutto ora che, da genitore, ho modo di osservare da un'angolazione diversa quale sia il rapporto tra nonno e nipote. E mi rendo anche conto di quanto li conoscessi poco, in fin dei conti.
 Diventa difficile tenere un blog sulla memoria quando ci si trova davanti un magma indistinto pieno di zone d'ombra. Fortunatamente ogni tanto può capitare che ti giunga in aiuto uno scrigno segreto, a rischiarare qualche angolo buio.

giovedì 10 marzo 2011

caro marito

Siccome in questo periodo ho la mente occupata da un lungo lavoro che mi prosciuga la voglia e l'ispirazione, ho deciso di riempire lo spazio vuoto che precede il prossimo post riciclandone uno dal mio vecchio blog. Tanto, poco alla volta, intendevo comunque trasferire in questo spazio tutti i post scritti in passato che fossero attinenti ai temi affrontati su Memoria Esterna, quindi tanto vale che lo faccia nel momento del bisogno.
Lo spunto per la pubblicazione di questo post viene inoltre dal ritrovamento di una scatola in cui mio padre aveva raccolto la corrispondenza che mio bisnonno Bartolomeo aveva tenuto dal fronte, durante la prima guerra mondiale, con la moglie Caterina, il fratello Giovanni e i genitori Ottavio e Maddalena.
Mio bisnonno morì in battaglia nel 1916 sul fronte austriaco, lasciando la moglie sola con il figlio di appena due anni, mio nonno Ottavio (Taviu). La coppia è protagonista della foto qui sotto, scattata nel 1911 in occasione del loro matrimonio. Solo mentre digitavo la data, in questo stesso momento, mi sono reso conto che sono passati esattamente cento anni da allora.

Bartolomeo Calorio II e Caterina Sperone il giorno del loro matrimonio, 1911.

Ed ecco la trascrizione della prima lettera, tenera e commovente, che vi propongo. Fu scritta da Caterina poco dopo la partenza del marito.


Canale, 8-3-1916
Caro marito,
dopo sei giorni dalla tua partenza ieri o ricevuto la tua bella lettera che da me era tanto desiderata, credi mi sono molto rallegrata nel riceverla credi gioivo e avevo il cuore che mi batteva e le lacrime agli occhi non potevo più nemmeno dissigillarla, la forza del batticuore che io avevo, ma poi mi sono tranquillizzata un poco, me, e anche i nostri genitori nel sentire che al momento stai bene di salute e che al momento sei ancora fuori dal pericolo.
Caro marito sto a dirti che quella lettera lo gia letta piu di 20 volte tutti i momenti la guardo la leggo e la rileggo la faccio baciare dal nostro caro figlio, e vedendo che e fatto da te mi rallegro un poco il mio cuore, e mi consolo un poco, persino la mamma dice non lai ancora letta abbastanza? ma io non guardo nessuno, io leggendola mi sollevo un poco da quelle pene e mi pare di vederti vicino che mi parli insieme, e sembra che sia arrivata soltanto in quei momenti.
Caro Bartolomeo ti prego quando mi scrivi di non darmi piu del voi perche anche da lontano mi pare di essere sempre tua moglie come prima, e oso a dirti ancora di piu affezionata di prima, intanto scusami se ti dico questo, non e per offenderti ma solamente per unaltra volta che tu faccia piu attenzione quando mi scrivi poi mi sono messa persino a ridere e dicevo per ora comincia a darmi del voi, ma lo so che tu essendo tanto buono con la tua cara moglie non lai fatto con nessuno motivo, e credo che anche tu lo abbi fatto per una facezia per consolarmi un poco, dunque perdonami se ti dico questo e ti prego di non offenderti perche io o detto questo per farti ridere un poco perche mi ai dato del voi.
Intanto ti dico che siamo tutti in salute come speriamo di te anche il nostro Giovanni a scritto che sta bene e non sa ancora niente riguardo alla sua partenza. Caro marito non posso esprimerti il dolore che o provato nella tua partenza dalla stazione di Alba credimi che la strada per ritornare a casa non lo piu vista, e credo che anche tu avrai fatto un viaggio molto addolorato. Dunque fatti coraggio, guarda di sostenerti per bene per non venire ammalato e se hai bisogno dei soldi o qualche altra cosa mandalo a dire che te ne mandiamo, guarda di non stare con pochi soldi in tasca perche delle volte e pericolo mandarti lontano e se non ai dei soldi non puoi sostenerti come ai bisogno. Ti prego di ascoltare i tuoi superiori affinche non ti castigano e prederti guarda riguardo al portafoglio, di non perderlo e che non te lo prendono mettilo sempre nella tasca secreta che ti o fatto. Intanto mandami a dire se la cravatta ti piace perche desidero saperlo. Caro marito mi raccomando te di pregare e di renderti di cuore a qualche Santo o qualche Madonna ove desideri te, alla tua idea, perche ti faccia la grazia di ritornare a casa sano e salvo, e quello che li prometti quando sarai a casa di farlo, ti prego di farlo con devozione. Ti dico questo perche a renderti te, vale piu che a renderti noi da casa. Mi raccomando se ti mandano giu di non fare tanto il curioso e di assicurarti alla tua vita. Ti dico che mentre ti scrivo abbiamo ricevuto la cartolina del mio caro fratello Antonio e siamo stati contenti. Ti prego di scrivermi appena ricevuto la lettera e di scrivermi sovente sovente perche io preferisco una tua notizia che tutte le cose di questo mondo.
Addio ricevi tanti saluti dal figlio di Sansun che si trova anche lui vicino a Cividale e presto a detto che ti scrive, e poi ricevi tanti saluti da tutta la nostra famiglia e la famiglia sperone e barba Garun e la zia Carolina e barba Minot e la zia che anno anche loro ricevuto la tua cartolina e ora sono rimasti amici il nostro padre con lo zio Domenico, vengono sempre a casa nostra a veliare. Ricevi ancora tanti saluti dalla nostra famiglia e ricevi tanti saluti e baci da chi sempre ti ricorda tua Aff.ma moglie e un bacio dal tuo e nostro figlio Ottavio che anche lui prega per te.
Catterina

A margine ci sono due note:

Quando scrivete mandate sempre notizie uno dell'altro, ricevi baci dalla tua moglie e figlio, addio

L'indirizzo del nostro Giovanni
Calorio Giovanni
3a Artiglieria di Montagna 51a Batteria forte S. Giuliano Genova

giovedì 30 dicembre 2010

il fantasma dei natali passati

Ecco, col consueto ritardo, alcune reminiscenze dei miei trentadue natali passati. Senza entrare troppo nel dettaglio, visto che ora non ho molto tempo e per di più non voglio bruciarmi gli argomenti per i Natali futuri.

Nel primo Natale che ricordi compare un robot di plastica rosso, arancione e blu scuro, con una trivella al posto del braccio. Quanti anni avrò avuto? Lo scenario è la cucina arancione della casa dei miei genitori, e a fuoco c'è quel soprammobile di - credo - peltro a forma di fagiano. Non ricordo quando ho smesso di credere a babbo Natale, ma ho un ricordo di me in salotto che guardo dalla finestra verso il cancello di Via Mompissano da cui sarebbe presumibilmente arrivato. Mi rivedo inoltre interrogarmi di fronte al presepe su quali fossero i rispettivi ruoli di Babbo Natale e Gesù Bambino. Ricordo una recita di Natale dell'asilo, con un foglietto da imparare a memoria seduto sugli scalini del salotto. Non ricordo di regali aperti la mattina del 25, perché per me il Natale è il rito familiare della sera della vigilia, tramandato quasi intatto fino allo scorso anno. 
Dopo la cena che noi bambini consumavamo in fretta e furia lamentandoci della calma snervante con cui mangiava mio padre (che probabilmente lo faceva apposta), mia madre lavava i piatti, mentre noi forse davamo una mano a spreparare al solo scopo di anticipare il più possibile l'apertura dei regali. Dopodiché si saliva tutti in macchina a fare il giro degli auguri ai nonni, prima quelli paterni, poi quelli materni. Durante gli anni del liceo, le visite si sono dimezzate  riducendosi solo ai nonni materni, e più passavano gli anni, più i miei fratelli e io stavamo stretti sul sedile posteriore dell'auto. Infine si tornava a casa, dove mio padre spezzava degli stuzzicadenti e decretava l'ordine dei turni dell'apertura dei regali in base alla lunghezza dello stecco pescato. Senonché, puntualmente sul più bello, proprio durante il tanto agognato spacchettamento, suonava il citofono o il campanello a interrompere il tutto, e noi bambini friggevamo. Un paio di volte dev'essere stato Ettore, il vicino di casa, venuto a farci gli auguri. Da allora, ogni volta che la sera della vigilia suonava il campanello, tutti esclamavano alzando gli occhi al cielo: "Ettore!".

lunedì 20 dicembre 2010

il tempo delle medie: stephen king, elton john e quelle merendine della mr. day

Se c'è un'età che causa imbarazzi a posteriori, è quella che corrisponde grosso modo al passaggio dall'infanzia all'adolescenza, ovvero l'età delle scuole medie. In quel periodo della vita si è ancora piccoli ma si smania dalla voglia di apparire grandi, e lo scarto tra le intenzioni e i risultati provoca inevitabilmente un senso di ridicolo. Questo per dire che per me l'espressione "bimbo delle medie" ha sempre avuto un'accezione abbastanza negativa.
Si tratta tuttavia di un'età molto importante in quanto è quella in cui inizia a delinearsi con maggiore precisione la personalità di un individuo e si gettano le basi di ciò che verrà sviluppato con vigore negli anni dell'adolescenza. In particolare, io trovo che sia l'età in cui i gusti di una persona, per quanto acerbi, cominciano a manifestarsi in maniera indipendente, così come le sue passioni e i suoi interessi. Almeno nel mio caso credo che sia andata così.
 A quei tempi, ovvero a cavallo tra Ottanta e Novanta, iniziai a coltivare in maniera relativamente autonoma (ovvero non per riflesso dei miei fratelli maggiori) passioni come quelle della musica e della lettura. Nel corso degli anni ho poi smesso di ascoltare o leggere le cose che mi piacevano allora, ma  non posso negare che esse abbiano rappresentato un passo importante nella mia crescita, costituendo una linea di demarcazione rispetto a quando mi limitavo a pescare indiscriminatamente tra le musicassette di mio fratello o di mia sorella.

In particolare, ho degli intensi ricordi dei pomeriggi o delle serate passate sul letto a leggere romanzi di Stephen King, mentre di sottofondo suonavano musicassette di Elton John. A dire il vero, c'è un terzo elemento a condire questi ricordi: il cibo, perché sin dall'infanzia ho sempre avuto l'abitudine di mangiare qualcosa mentre leggevo. Non so perché, ma senza cibo mi sembrava che mancasse qualcosa.
La lettura di Stephen King iniziò, credo, in prima o seconda media quando presi in mano, su consiglio del mio amico Vaga (o di suo fratello), Gli occhi del drago. In quel periodo ero appassionato di fantasy, e forse avevo già anche letto qualche romanzo di Terry Brooks di mio fratello, ma quello di King mi colpì più profondamente a causa della per me insolita crudeltà che lo caratterizzava. Fece seguito IT, e fu per me una rivelazione il brivido che provai leggendo le prime pagine, quando lo scrittore descrive il bianco dell'omero che sbuca fuori dal moncherino del braccio di un bambino dopo che questi è stato azzannato dallo spaventoso pagliaccio, affacciatosi sulla strada da un tombino: ricordo che mi stupii del fatto che si potesse provare paura  semplicemente leggendo. Prima di allora pensavo infatti che la paura fosse un fatto puramente visivo.
Poi ne vennero tanti altri, ma quelli che mi sono rimasti più impressi sono L'ombra dello scorpione e i racconti brevi di Stagioni diverse e Quattro dopo mezzanotte. Proprio a quest'ultima raccolta si collega il ricordo più nitido e intenso che raggruppa i tre elementi di lettura, musica e cibo: è un'immagine di me disteso sul letto di mia sorella a leggere il racconto I langolieri mentre un piccolo mangiacassette nero suona un Best of (o forse era l'album Sleeping With the Past) di Elton John, e io divoro delle buonissime merendine di sfoglia ripiena di crema al limone. Le produceva un tempo la Mr. Day e ora non so bene perché non le faccia più (qui ci sarebbe materia per un altro post).
Ci sono altri ricordi legati a quel periodo di ascolti e libri presi in prestito dalla biblioteca di Canale (un salame al finocchio mangiato avidamente sulle pagine de L'incendiaria; i racconti di Scheletri  letti uno dopo l'altro in una giornata estiva di permanenza forzata a letto; L'occhio del male consumato sul terrazzo in un pomeriggio d'estate mentre in cortile c'erano i miei nonni paterni), ma quella particolare immagine così vivida e ricca di calore è per me è emblematica di un intero periodo e dei suoi frutti migliori.

Per quanto riguarda la mia passione per Elton John, non ricordo come fosse nata, forse da una cassetta di mio fratello, forse da un vinile di Vaga, ma divenne presto un'infatuazione autonoma. Allora ascoltavo già cose  di gran lunga migliori che continuo ad amare ancora oggi (in primis Highway 61 Revisited di Bob Dylan, che prese mio fratello in edicola con la collana "Il grande Rock" ed è tuttora uno dei miei album preferiti di sempre), ma Elton John ebbe il merito di essere il mio primo idolo musicale, e la sua musica di essere una passione che sentivo soltanto mia. A quel tempo, cercavo avidamente notizie sul suo conto, provavo a imparare le sue canzoni pur non sapendo l'inglese, attendevo con ansia che MTV passasse qualche suo video. Di Elton John furono anche i miei primi CD. Il mio primo compact disc in assoluto fu infatti Captain Fantastic and the Brown Dirty Cowboy, che chiesi per Natale. Anni dopo lo vendetti a un amico e in fondo un po' mi dispiace. In breve tempo la mia indole monomaniacale si sarebbe focalizzata su altre cose la cui scoperta portò a una ridefinizione dei miei gusti, così che oggi non mi passerebbe mai per l'anticamera del cervello di mettere su un CD di Elton John, se non per un attacco di nostalgia irrefrenabile o di curiosità volta a scoprire cosa ci trovava quel ragazzino, quell'embrione di me, in quel pop spesso (ma non sempre, per carità) superficiale e melenso. Ringrazio tuttavia Sir Reginald  Kenneth Dwight per aver svolto un ruolo importante nella mia crescita musicale e per aver  accompagnato, attraverso le cuffie di un walkman o l'autoradio di mio padre quando lui acconsentiva a mettere su qualcosa di mio, un bel viaggio in Francia insieme ai miei genitori nei primissimi anni Novanta: ricordo Crocodile Rock e Your Song stampati sui monti dell'Alvernia, sebbene i miei brani preferiti, nonché quelli che considero oggi tra i più validi e tuttora degni d'ascolto, fossero Sixty Years On e Madman Across the Water.

lunedì 18 ottobre 2010

l'età dell'oro

Mentre scavavo tra i ricordi alla ricerca di quello che meglio si addica a inaugurare questo blog, ho iniziato a riflettere su cosa significhi parlare di ricordi, per una persona della mia età e della mia generazione. Del resto, i ricordi che possono trovare spazio su queste pagine elettroniche si collocano necessariamente lungo l'arco di circa tre decenni, ma il processo di sedimentazione necessario a far diventare ricordi le esperienze finirà probabilmente per escludere in una certa misura l'ultimo di essi (spero però di smentirmi in seguito). Per il momento, quindi, il serbatoio a cui attingere si colloca in un arco temporale relativamente ristretto, ovvero quello che copre il ventennio Ottanta-Novanta.
Inevitabilmente tale periodo storico, accompagnandosi a precise coordinate geografiche, sociali e quant'altro, definisce la natura dei miei ricordi. Ciò è di per sé scontato, ma mi dà da pensare la distanza che intercorre tra i ricordi che io mi accingo a trascrivere, immaginando di raccontarli ai miei figli, e i ricordi che invece io ho vissuto da ascoltatore quand'ero a mia volta bambino. Penso ad esempio ai racconti dei miei nonni paterni, nei quali emergeva spesso l'esperienza della guerra, e anche se non ne ho un ricordo molto chiaro, mi sembra di sentire in corpo il sapore delle parole di mia nonna Rina mentre nella penombra della sua camera da letto mi raccontava di quanto erano stati duri i suoi tempi. Più in generale, l'aura di rustica austerità e rigore che appariva ai miei occhi nell'ascoltare i racconti di gioventù dei miei avi più prossimi, un'aura evidenziata e forse  soggettivamente esagerata dal contrasto con il mio vissuto quotidiano, donava a quei ricordi un fascino epico, relegandoli in un passato tanto lontano quanto ermeticamente sigillato e abbandonato. Il presente di un fortunato bambino di estrazione borghese, nato alla fine degli anni Settanta nella florida e rassicurante reltà della provincia piemontese doveva essere presente per sempre: una condizione ereditata e data per scontata come naturale, eterna, immutabile, invulnerabile.
Gli ultimi anni, tuttavia, si sono dati da fare su diversi fronti per sgretolare almeno in parte queste certezze, e la sensazione ora è strana: forse sono troppo pessimista, ma al di là della patina di nostalgica bellezza che tira a lucido i ricordi dolci come quelli amari, se prefiguro me stesso mentre racconto della mia  infanzia e della mia giovinezza a un immaginario nipotino seduto sulle mie ginocchia, mi vedo evocare una realtà mitica in cui tutto andava sempre e comunque per il meglio: quasi una sorta di perduta età dell'oro.