Ieri sera ho finito Patrimonio di Philip Roth, di cui, ammetto, finora avevo solo letto Lamento di Portnoy e Pastorale americana. Mi era già venuta voglia di leggerlo tempo fa, dopo aver visto questo post scritto da un mio amico, ma ho deciso di affrontarlo solo ora per creare la giusta distanza rispetto alla morte di mio padre. Il libro parla infatti del rapporto tra l'autore e il padre malato di cancro, e degli ultimi mesi di vita di quest'ultimo. Al di là dell'effettivo valore del libro, indubbiamente un capolavoro, vi ho ritrovato molte delle sensazioni che provai nel corso della terribile progressione della malattia. Molte di quelle riflessioni, di quelle lacrime, di quei pugni nello stomaco, di quel senso di impotenza di fronte a un male così spietato.
Un passaggio in particolare descrive perfettamente uno dei vari stati d'animo che si alternavano in me in quei giorni. Uno stato d'animo che, in fin dei conti, nei mesi successivi mi ha spinto a creare questo blog. Quindi, smentendomi in parte rispetto al mio ultimo post, lascio che siano le parole di Roth a rievocare quei momenti nei quali restavo seduto in silenzio sul suo letto a fissargli le mani:
"Lo osservai intensamente, come per la prima volta, e continuai ad aspettare che nella testa mi si formassero altri pensieri. Ma non ne arrivarono più, nessun altro pensiero tranne questo: che dovevo fissarmelo nella memoria per quando fosse morto. Forse gli avrebbe impedito di sbiadire e diventare etereo col passare degli anni. «Devo ricordare con precisione, - mi dissi, - ricordare ogni cosa con precisione, in modo che quando se ne sarà andato io possa ricreare il padre che ha creato me». Non devi dimenticare nulla."
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