Ieri, nel mucchio del compost da sempre situato in un angolo dell'orto che affianca la casa dei miei genitori, ho trovato una nidiata di topolini di campagna. Erano minuscoli e rosa e squittivano impercettibilmente. Subito mi è balenata l'idea che forse non sarebbe stato tanto saggio tenerli in vita, onde non trovarsi poi la casa invasa dalle prolifiche bestiole... ma ovviamente non ce l'ho fatta: li ho mostrati a Pietro e poi li ho amorevolmente ricoperti.
Qualche settimana fa, in un vaso sul balcone di casa mia, una colomba ha fatto due uova. La tenerezza e l'entusiasmo iniziali (mi piaceva l'idea di mostrarne le evoluzioni a Pietro) si sono presto smorzati quando ci siamo trovati il balcone sommerso (per usare un eufemismo) dalle loro cacche. Nonostante il disagio di dover rinunciare a un balcone e la paura di eventuali malattie di cui i piccioni sono portatori, non ce l'ho fatta a far fuori quei due pulcini sgraziati... quindi abbiamo aspettato un mese affinché prendessero il volo, prima di smantellare tutto quanto.
Se trovo un ragno o un insetto sgradito in casa, invece di ucciderlo cerco sempre di accompagnarlo fuori dalla finestra, nei limiti del possibile. Se lo uccido, provo comunque un piccolo (come una punta d'insetto, per l'appunto) senso di colpa, leggero ed effimero ma immancabile.
Tutto questo per dire che il pensiero di uccidere degli animali, anche i meno simpatici, anche quando lo richiederebbe il buon senso, è per me qualcosa di doloroso e mi costa un certo sforzo, a meno che la paura (vedi vespe e calabroni - di cui ho il terrore) o il fastidio non superino di gran lunga la pietà. Mi sono chiesto da dove abbiano origine queste mie remore. Certo, da bambino (e un po' ancora adesso) ero un grande appassionato di animali, ho letto e riletto centinaia di volte libri sull'argomento, ero addirittura iscritto al WWF, ho come tutti subìto gli effetti dell'edulcorata antropomorfizzazione disneyana, eccetera eccetera. Mi piace tuttavia pensare che tale senso di colpa tutto abbia avuto origine da un unico episodio.
Ricordo infatti che da piccolo, credo tra i tre e i cinque anni, mi piaceva uccidere i ragni. Ho una vaga memoria della sensazione e del rumore secco e rimbombante prodotto nello schiacciarne uno con la scarpina sul pavimento arancione del bagno del piano di sotto. Mi trovavo insieme a mia nonna Gemma: lei li tirava giù dal soffitto con la scopa, mentre io avevo il compito di rincorrerli e freddarli. Era divertente, ma poi questo mio piacere fu frenato, credo non molto tempo dopo, da un piccolo evento apparentemente insignificante (ma il fatto stesso che me ne ricordi a distanza di trent'anni non ne indica forse l'importanza?). Ebbene, mi trovavo vicino al termosifone del bagno del piano di sopra, tra il blu scuro delle piastrelle e il bianco delle tende. Lì vidi un ragno e feci per ammazzarlo, quando mia madre mi disse: "Se lo uccidi, poi cosa penserà la sua mamma, non vedendolo più tornare?". Questa considerazione mi diede molto da riflettere. Il pensiero della mamma ragno che se ne stava nella sua tela ad attendere invano il ritorno del figlio instillò in me una sorta di malessere, lieve ma ben radicato. Quasi un riflesso pavloviano, l'effetto di una cura Ludovico. Persino negli anni del tipico sadismo infantile credo di non aver mai fatto del male a qualche animale (per lo meno volutamente - e qui ci sarebbe materia per un altro post).
Fanno eccezione le solite povere mosche, le zanzare e qualche bruco.