giovedì 30 dicembre 2010

il fantasma dei natali passati

Ecco, col consueto ritardo, alcune reminiscenze dei miei trentadue natali passati. Senza entrare troppo nel dettaglio, visto che ora non ho molto tempo e per di più non voglio bruciarmi gli argomenti per i Natali futuri.

Nel primo Natale che ricordi compare un robot di plastica rosso, arancione e blu scuro, con una trivella al posto del braccio. Quanti anni avrò avuto? Lo scenario è la cucina arancione della casa dei miei genitori, e a fuoco c'è quel soprammobile di - credo - peltro a forma di fagiano. Non ricordo quando ho smesso di credere a babbo Natale, ma ho un ricordo di me in salotto che guardo dalla finestra verso il cancello di Via Mompissano da cui sarebbe presumibilmente arrivato. Mi rivedo inoltre interrogarmi di fronte al presepe su quali fossero i rispettivi ruoli di Babbo Natale e Gesù Bambino. Ricordo una recita di Natale dell'asilo, con un foglietto da imparare a memoria seduto sugli scalini del salotto. Non ricordo di regali aperti la mattina del 25, perché per me il Natale è il rito familiare della sera della vigilia, tramandato quasi intatto fino allo scorso anno. 
Dopo la cena che noi bambini consumavamo in fretta e furia lamentandoci della calma snervante con cui mangiava mio padre (che probabilmente lo faceva apposta), mia madre lavava i piatti, mentre noi forse davamo una mano a spreparare al solo scopo di anticipare il più possibile l'apertura dei regali. Dopodiché si saliva tutti in macchina a fare il giro degli auguri ai nonni, prima quelli paterni, poi quelli materni. Durante gli anni del liceo, le visite si sono dimezzate  riducendosi solo ai nonni materni, e più passavano gli anni, più i miei fratelli e io stavamo stretti sul sedile posteriore dell'auto. Infine si tornava a casa, dove mio padre spezzava degli stuzzicadenti e decretava l'ordine dei turni dell'apertura dei regali in base alla lunghezza dello stecco pescato. Senonché, puntualmente sul più bello, proprio durante il tanto agognato spacchettamento, suonava il citofono o il campanello a interrompere il tutto, e noi bambini friggevamo. Un paio di volte dev'essere stato Ettore, il vicino di casa, venuto a farci gli auguri. Da allora, ogni volta che la sera della vigilia suonava il campanello, tutti esclamavano alzando gli occhi al cielo: "Ettore!".

lunedì 20 dicembre 2010

il tempo delle medie: stephen king, elton john e quelle merendine della mr. day

Se c'è un'età che causa imbarazzi a posteriori, è quella che corrisponde grosso modo al passaggio dall'infanzia all'adolescenza, ovvero l'età delle scuole medie. In quel periodo della vita si è ancora piccoli ma si smania dalla voglia di apparire grandi, e lo scarto tra le intenzioni e i risultati provoca inevitabilmente un senso di ridicolo. Questo per dire che per me l'espressione "bimbo delle medie" ha sempre avuto un'accezione abbastanza negativa.
Si tratta tuttavia di un'età molto importante in quanto è quella in cui inizia a delinearsi con maggiore precisione la personalità di un individuo e si gettano le basi di ciò che verrà sviluppato con vigore negli anni dell'adolescenza. In particolare, io trovo che sia l'età in cui i gusti di una persona, per quanto acerbi, cominciano a manifestarsi in maniera indipendente, così come le sue passioni e i suoi interessi. Almeno nel mio caso credo che sia andata così.
 A quei tempi, ovvero a cavallo tra Ottanta e Novanta, iniziai a coltivare in maniera relativamente autonoma (ovvero non per riflesso dei miei fratelli maggiori) passioni come quelle della musica e della lettura. Nel corso degli anni ho poi smesso di ascoltare o leggere le cose che mi piacevano allora, ma  non posso negare che esse abbiano rappresentato un passo importante nella mia crescita, costituendo una linea di demarcazione rispetto a quando mi limitavo a pescare indiscriminatamente tra le musicassette di mio fratello o di mia sorella.

In particolare, ho degli intensi ricordi dei pomeriggi o delle serate passate sul letto a leggere romanzi di Stephen King, mentre di sottofondo suonavano musicassette di Elton John. A dire il vero, c'è un terzo elemento a condire questi ricordi: il cibo, perché sin dall'infanzia ho sempre avuto l'abitudine di mangiare qualcosa mentre leggevo. Non so perché, ma senza cibo mi sembrava che mancasse qualcosa.
La lettura di Stephen King iniziò, credo, in prima o seconda media quando presi in mano, su consiglio del mio amico Vaga (o di suo fratello), Gli occhi del drago. In quel periodo ero appassionato di fantasy, e forse avevo già anche letto qualche romanzo di Terry Brooks di mio fratello, ma quello di King mi colpì più profondamente a causa della per me insolita crudeltà che lo caratterizzava. Fece seguito IT, e fu per me una rivelazione il brivido che provai leggendo le prime pagine, quando lo scrittore descrive il bianco dell'omero che sbuca fuori dal moncherino del braccio di un bambino dopo che questi è stato azzannato dallo spaventoso pagliaccio, affacciatosi sulla strada da un tombino: ricordo che mi stupii del fatto che si potesse provare paura  semplicemente leggendo. Prima di allora pensavo infatti che la paura fosse un fatto puramente visivo.
Poi ne vennero tanti altri, ma quelli che mi sono rimasti più impressi sono L'ombra dello scorpione e i racconti brevi di Stagioni diverse e Quattro dopo mezzanotte. Proprio a quest'ultima raccolta si collega il ricordo più nitido e intenso che raggruppa i tre elementi di lettura, musica e cibo: è un'immagine di me disteso sul letto di mia sorella a leggere il racconto I langolieri mentre un piccolo mangiacassette nero suona un Best of (o forse era l'album Sleeping With the Past) di Elton John, e io divoro delle buonissime merendine di sfoglia ripiena di crema al limone. Le produceva un tempo la Mr. Day e ora non so bene perché non le faccia più (qui ci sarebbe materia per un altro post).
Ci sono altri ricordi legati a quel periodo di ascolti e libri presi in prestito dalla biblioteca di Canale (un salame al finocchio mangiato avidamente sulle pagine de L'incendiaria; i racconti di Scheletri  letti uno dopo l'altro in una giornata estiva di permanenza forzata a letto; L'occhio del male consumato sul terrazzo in un pomeriggio d'estate mentre in cortile c'erano i miei nonni paterni), ma quella particolare immagine così vivida e ricca di calore è per me è emblematica di un intero periodo e dei suoi frutti migliori.

Per quanto riguarda la mia passione per Elton John, non ricordo come fosse nata, forse da una cassetta di mio fratello, forse da un vinile di Vaga, ma divenne presto un'infatuazione autonoma. Allora ascoltavo già cose  di gran lunga migliori che continuo ad amare ancora oggi (in primis Highway 61 Revisited di Bob Dylan, che prese mio fratello in edicola con la collana "Il grande Rock" ed è tuttora uno dei miei album preferiti di sempre), ma Elton John ebbe il merito di essere il mio primo idolo musicale, e la sua musica di essere una passione che sentivo soltanto mia. A quel tempo, cercavo avidamente notizie sul suo conto, provavo a imparare le sue canzoni pur non sapendo l'inglese, attendevo con ansia che MTV passasse qualche suo video. Di Elton John furono anche i miei primi CD. Il mio primo compact disc in assoluto fu infatti Captain Fantastic and the Brown Dirty Cowboy, che chiesi per Natale. Anni dopo lo vendetti a un amico e in fondo un po' mi dispiace. In breve tempo la mia indole monomaniacale si sarebbe focalizzata su altre cose la cui scoperta portò a una ridefinizione dei miei gusti, così che oggi non mi passerebbe mai per l'anticamera del cervello di mettere su un CD di Elton John, se non per un attacco di nostalgia irrefrenabile o di curiosità volta a scoprire cosa ci trovava quel ragazzino, quell'embrione di me, in quel pop spesso (ma non sempre, per carità) superficiale e melenso. Ringrazio tuttavia Sir Reginald  Kenneth Dwight per aver svolto un ruolo importante nella mia crescita musicale e per aver  accompagnato, attraverso le cuffie di un walkman o l'autoradio di mio padre quando lui acconsentiva a mettere su qualcosa di mio, un bel viaggio in Francia insieme ai miei genitori nei primissimi anni Novanta: ricordo Crocodile Rock e Your Song stampati sui monti dell'Alvernia, sebbene i miei brani preferiti, nonché quelli che considero oggi tra i più validi e tuttora degni d'ascolto, fossero Sixty Years On e Madman Across the Water.

sabato 20 novembre 2010

una giornata al mare

I miei ricordi legati al mare raramente risalgono all'infanzia. Mi vengono in mente episodi che appartengono agli anni del liceo, altri collocati ai tempi dell'università, ma il mare vissuto da bambino per me è un ricordo abbastanza indistinto, e faccio molta fatica a pescare dal caos qualcosa di definito. Le uniche cose che riesco a mettere a fuoco sono delle caramelle gommose a forma di orsetto, dei braccioli arancioni, io che resto con mio nonno Berto mentre mia madre nuota in lontananza. Ma si tratta di cocci, più che di ricordi. Questo perché mio padre prediligeva la montagna, e le gite al mare erano per me una rarità, specialmente dalle elementari in avanti.
La giornata del mare che dà il titolo a questo post, infatti, riguarda tempi ben più recenti.
Qualche giorno fa sono stato a Varazze con Silvia e i bimbi, e la domenica abbiamo pranzato fuori. Io ho ordinato dei totani alla griglia, e più tardi, mentre immerso nella desolazione invernale della spiaggia che affianca la "casa araba" sentivo ancora in bocca il loro sapore, mi è tornato in mente quel giorno di ormai quasi tre anni fa in cui con i miei genitori, Silvia e un Pietro ancora piccolo, trascorsi una fugace giornata al mare.
Anche quel giorno era inverno (si era intorno a febbraio, credo) e c'era brutto tempo, e anche quel giorno ordinai, in un diverso ristorante situato sul lungomare di Varazze, totani alla griglia. Mio padre ordinò due bottiglie di un qualche vino bianco ligure, e le consumammo quasi interamente io e lui. A dire la verità, non compresi bene perché mai mio padre avesse ordinato la seconda bottiglia (bevevamo solo in tre perché Silvia era in allattamento, quindi una bottiglia sarebbe stata sufficiente), e soprattutto perché volle finirla a tutti i costi riempendomi il bicchiere fino all'orlo a fine pasto, ma la sensazione di quel momento era un po' quella della canzone di Paolo Conte, nel punto in cui il cantautore astigiano recita che "il vino bianco è fresco e va giù bene come questo cielo grande su di noi". Anche se il cielo di Wanda io me lo immagino azzurro, mentre dalla finestra di quel locale dai toni verde scuro si affacciavano soltanto nuvole basse e plumbee.
Quel pomeriggio non facemmo molto a causa del brutto tempo (a dispetto del quale mio padre ci offrì, come fossimo dei bambini, un ottimo gelato), ma ricordo con piacere quella lieve sensazione di ebrezza ed euforia che ha il potere miracoloso di far sentire vicine le persone. In fin dei conti, non mi è capitato molto spesso di ritrovarmi brillo insieme a mio padre, ma colloco quelle poche occasioni tra i momenti belli della mia vita.

martedì 9 novembre 2010

giocobimbi

Com'è naturale che sia, in ogni famiglia si forma, nel corso di decenni di vita comune, una sorta di codice esclusivo immediatamente riconoscibile dai suoi membri e di meno facile comprensione agli orecchi esterni: un "lessico famigliare", per definirlo prendendo a prestito il titolo del celebre romanzo di Natalia Ginzburg. In alcuni casi, a causa del carattere di refrattarietà a mutamenti e correzioni insito nel suo essere radicato nel profondo, tale codice finisce per essere veicolatore di una memoria affettiva e privata. Esso può  infatti mantenere intatto il proprio valore nel linguaggio presente, ma poiché le sue radici affondano quasi sempre in tempi assai più lontani, finisce per rappresentare una sorta di  lungo strascico del passato, una memoria ancora viva e pulsante. In grazia di questa sua virtù, il lessico famigliare di casa Calorio entra di diritto nel novero degli argomenti di questo blog.

Nell'ambito della mia famiglia, il termine forse più peculiare in questo senso è il neologismo "giocobimbi". Esso indica un locale della casa dei miei genitori che spesso, di fronte ad altre persone, mi sono a fatica sforzato di chiamare correttamente "tavernetta" o "cantinetta", quale effettivamente è: ogni volta che mi trovo costretto a usare termini del genere mi sembra di violare qualcosa, di forzare la vera natura, invisibile e puramente emotiva, di quel luogo. Ma soprattutto, mi ritrovo ad applicare una vera e propria "traduzione in italiano" a qualcosa che dentro di me corrisponde a una voce differente.
Probabilmente nelle intenzioni iniziali dei miei genitori quella stanza avrebbe dovuto essere adibita a chissà quali giochi di noi bambini, e ho il sospetto che sia stata l'etichettatrice con cui mio fratello aveva siglato tutte le porte della casa a stigmatizzare così fortemente il locale come "il giocobimbi". Fatto sta che, a dispetto del nome sopravvissuto fino a oggi, non ricordo di aver giocato abitualmente lì dentro, e quel locale situato al piano terra  ha assunto nel corso degli anni altre funzioni più consone alla sua natura.
L'unico giocattolo di cui ricordi la presenza all'interno di quella stanza era una primitiva console che consentiva di giocare a Pong e a qualche altro rudimentale videogame su un televisore in bianco e nero (i miei ricordi al riguardo sono parecchio annebbiati: forse era anche dotata di pistola? Forse c'è stata più di una console? In ogni caso probabilmente era una di queste). Mi resta poi una vaga impressione di giornate estive nelle quali il  giocobimbi forniva un fresco riparo dalla calura estiva... un luogo in cui mangiare una fetta d'anguria dopo aver giocato in  giardino, dentro a una tenda indiana vinta con i punti delle "Girelle" Motta. Ma più che altro, associo il giocobimbi alle riunioni serali degli amici dei miei genitori al calore di una stufetta di ghisa che ora ho nella mia cucina; alle prove del coro gospel in cui cantavano mio padre e mia sorella; e soprattutto a dei pomeriggi d'inverno in compagnia delle mie due nonne: nonna Gemma che stirava nella stanza adiacente, tra i vapori del ferro da stiro dal caratteristico odore; nonna Rina che sedeva con in mano ago, filo e quel curioso uovo di legno, a rammendare calzini.
A fare cose che non riesco a ricordare mentre loro due chiacchieravano intente nelle loro mansioni. Certo, probabilmente si trattava di giochi.

giovedì 28 ottobre 2010

più vicino

Essendo Memoria esterna un blog ideato in divenire, in questi primi post mi trovo inevitabilmente a tracciare alcune coordinate strada facendo. Prendo a spunto questo post per specificarne un paio, per quanto in fin dei conti esse suonino abbastanza scontate.
La prima riguarda l'insieme dei filoni che attraverseranno il blog: uno dei principali, che inauguro qui, vedrà infatti come protagonista la musica, forse il più potente veicolo di ricordi insieme alla fotografia. La seconda concerne invece la struttura vera e propria di questo spazio: come si evince da questo stesso post, la pesca dei ricordi non seguirà il benché minimo andamento cronologico (né si sforzerà a tutti i costi di evitarlo), quindi si passerà tranquillamente dalla mia personale età della pietra all'altroieri, e viceversa.

Tutto questo per dire che l'altro giorno ho ascoltato  una canzone dei Joy Division che per quanto mi piaccia non mi capita esattamente di sentire quotidianamente: Decades, dall'album Closer (1980). Il nesso con la fotografia qui a fianco, che ritrae Silvia in un quartiere di Osaka tra l'estate e l'autunno del 2001, è forse tutt'altro che evidente, ma di fatto Decades, come del resto l'intero album, è una canzone che all'ascolto mi spedisce immediatamente in Giappone.  Come per tutte le melodie assorbite intensivamente in un arco di tempo circoscritto e poi lasciate  in uno stato di semiabbandono quasi intenzionalmente, come per preservare intatto il legame che esse hanno instaurato con una determinata situazione, all'ascolto il rimando è netto e immediato. Closer non è l'unico album ad avere la capacità di rievocare quel viaggio (degli altri due album forse parlerò più avanti, altrimenti mi brucio subito due post), ma  rispetto agli altri ha la particolarità di sovrapporsi esclusivamente a scenari esterni, nella mia mente.

Con mia somma vergogna, fino a quell'epoca conoscevo il gruppo di Ian Curtis solo di nome, per cui prima della partenza il mio amico Fabio me li consigliò registrandomi una cassetta. A parte il fatto che non sono passati nemmeno dieci anni e già sembra di descrivere il Mesozoico, a parlare di un walkman a musicassette, il nastro su cui Fabio mi aveva registrato Closer e Unknown Pleasures fu uno di quelli che mi portai in viaggio, e soprattutto fu quello che ascoltai maggiormente durante il lungo tragitto che ogni mattina, mentre Silvia dormiva beata sul futon, mi portava dall'appartamento che il mio amico Yuji  ci aveva "prestato", alla scuola di giapponese a cui mi ero iscritto. A questo punto devo dire che la memoria gioca brutti scherzi, perché non ricordo né il nome della stazione in cui era situtao l'appartamento, né quello della zona di Osaka in cui si trovava la scuola che frequentavo. In compenso, ricordo benissimo ciò che i sensi mi offrivano mentre di sottofondo suonavano i Joy Division: l'odore delle siepi d'osmanthus, il sapore di cannella lasciatomi in bocca dalle ciambelle  confezionate che inzuppavo nel caffelatte prima di partire, il gracchiare dei corvi appollaiati sugli alberi del parco, il bizzarro cartello che invitava la gente a fare attenzione ai malintenzionati raffigurandoli come un mostricciattolo verde, le scolaresche  di bimbi che durante le giornate di pioggia sfilavano nella via dietro l'ipermercato con gli impermeabili e i gambali gialli, gli studenti liceali che accorrevano a frotte alla stazione, il segnale acustico dei semafori, l'odore denso e umido che emanava da chioschi e ristoranti, i distributori automatici di caffé, i futon stesi a prendere aria sui balconi, l'affollatissimo parcheggio delle biciclette, le persone che leggevano, dormivano e scrivevano messaggi accalcate nel treno.

P.S.: Ho vinto la pigrizia e, dopo qualche piccola ricerca, sono risalito al nome della stazione vicina (una ventina di minuti a piedi) a casa di Yuji: era quella di Ishibashi. Oltre a transitare per quel luogo ogni giorno per raggiungere il centro di Osaka e la mia scuola, esso era il nostro passaggio obbligato per  i sabati sera nella pulsante Amerika-mura o vicecersa per una domenica pomeriggio  tra i quieti boschi di Minoo e le loro scimmie. Quel treno porta dunque nuovi ricordi che forse saranno materia di post futuri.

mercoledì 20 ottobre 2010

l'occhio invisibile


La foto che ho scelto come intestazione di questo blog (così come quella che compare come immagine del profilo) è stata scattata da mio padre nel 1981, all'epoca in cui io avevo la stessa età che ha ora mio figlio Pietro. E' ambientata nel salotto della casa dei miei genitori, e mi ritrae in una delle abitudini della mia infanzia, ovvero quella di sedermi sul davanzale della finestra con la schiena contro il muro e guardare al di fuori. Adoravo il calore che emanava dal termosifone sottostante, a cui si aggiungeva, nelle giornate di sole, il tepore che filtrava dai vetri. Se mi sforzo riesco anche a evocare la ruvida sensazione della tapezzeria che sfregava contro la mia maglia. La cornice della finestra inquadra un panorama familiare ora evolutosi e sovrastato da nuovi alberi cresciuti negli anni. A giudicare dal mio abbigliamento e dal bianco che sembra colorare uno dei tetti che si intravedono in lontananza, direi che era una giornata d'inverno. Chissà se ero in attesa del Natale.

All'epoca, mio padre non aveva soltanto l'hobby di scattare fotografie, ma anche di svilupparle. A distanza di così tanti anni, se penso alle apparecchiature, alle vaschette di plastica verde, rossa e bianca, alle pinze, mi sale ancora su per il naso l'odore che permeava il bagno della mansarda in cui lui si dedicava al suo passatempo, un odore acre forse dovuto al liquido in cui immergeva le fotografie. Sono sicuro che tutta l'attrezzatura sia ancora intatta nel solaio della casa dei miei genitori, e non nascondo che a volte mi è anche balenata in testa l'idea di riesumarla e cimentarmi nell'impresa. Poi naturalmente la mia naturale pigrizia mi ha puntualmente distolto dal benché minimo tentativo, e l'avvento della fotografia digitale e della carta fotografica per stampanti casalinghe hanno fatto il resto.

Amo queste foto non solo perché evocatrici di ricordi intensi e piacevoli, ma anche in quanto costituiscono per me una testimonianza preziosa di qualcosa d'invisibile. Vivo queste foto come un'emanazione dolce e amara del loro artefice da poco scomparso. Esse rappresentano infatti lo sguardo di mio padre, e in esse io non vedo solo me stesso, ma il me stesso guardato, selezionato, inquadrato, curato, coccolato dall'occhio di mio padre. Guardandole, posso provare a immedesimarmi in lui nel momento di premere il pulsante, entrare nei suoi panni, essere lui e tentare di immaginare come vedeva quel bambino inquadrato dall'obiettivo, così simile al bambino che ora io stesso fotografo.

lunedì 18 ottobre 2010

l'età dell'oro

Mentre scavavo tra i ricordi alla ricerca di quello che meglio si addica a inaugurare questo blog, ho iniziato a riflettere su cosa significhi parlare di ricordi, per una persona della mia età e della mia generazione. Del resto, i ricordi che possono trovare spazio su queste pagine elettroniche si collocano necessariamente lungo l'arco di circa tre decenni, ma il processo di sedimentazione necessario a far diventare ricordi le esperienze finirà probabilmente per escludere in una certa misura l'ultimo di essi (spero però di smentirmi in seguito). Per il momento, quindi, il serbatoio a cui attingere si colloca in un arco temporale relativamente ristretto, ovvero quello che copre il ventennio Ottanta-Novanta.
Inevitabilmente tale periodo storico, accompagnandosi a precise coordinate geografiche, sociali e quant'altro, definisce la natura dei miei ricordi. Ciò è di per sé scontato, ma mi dà da pensare la distanza che intercorre tra i ricordi che io mi accingo a trascrivere, immaginando di raccontarli ai miei figli, e i ricordi che invece io ho vissuto da ascoltatore quand'ero a mia volta bambino. Penso ad esempio ai racconti dei miei nonni paterni, nei quali emergeva spesso l'esperienza della guerra, e anche se non ne ho un ricordo molto chiaro, mi sembra di sentire in corpo il sapore delle parole di mia nonna Rina mentre nella penombra della sua camera da letto mi raccontava di quanto erano stati duri i suoi tempi. Più in generale, l'aura di rustica austerità e rigore che appariva ai miei occhi nell'ascoltare i racconti di gioventù dei miei avi più prossimi, un'aura evidenziata e forse  soggettivamente esagerata dal contrasto con il mio vissuto quotidiano, donava a quei ricordi un fascino epico, relegandoli in un passato tanto lontano quanto ermeticamente sigillato e abbandonato. Il presente di un fortunato bambino di estrazione borghese, nato alla fine degli anni Settanta nella florida e rassicurante reltà della provincia piemontese doveva essere presente per sempre: una condizione ereditata e data per scontata come naturale, eterna, immutabile, invulnerabile.
Gli ultimi anni, tuttavia, si sono dati da fare su diversi fronti per sgretolare almeno in parte queste certezze, e la sensazione ora è strana: forse sono troppo pessimista, ma al di là della patina di nostalgica bellezza che tira a lucido i ricordi dolci come quelli amari, se prefiguro me stesso mentre racconto della mia  infanzia e della mia giovinezza a un immaginario nipotino seduto sulle mie ginocchia, mi vedo evocare una realtà mitica in cui tutto andava sempre e comunque per il meglio: quasi una sorta di perduta età dell'oro.

lunedì 11 ottobre 2010

prologo

Inauguro con questo post il mio nuovo blog: Memoria Esterna. E' ancora in fase di costruzione, specialmente per quanto riguarda la veste grafica, quindi per ora prendetelo un po' così com'è... se fossi stato troppo dietro ai particolari, non avrei mai iniziato.

Il nome nasce da un'idea evidentemente non troppo originale, visto che al momento di registrarlo mi sono accorto che su Blogger già un altro utente aveva usato lo stesso titolo basandosi su un'idea sostanzialmente simile. Trattandosi però in quel caso di un blog contenente due soli post e fermo da mesi, mi sono sentito libero di procedere comunque alla registrazione con questo titolo, limitandomi a inserire un trattino nell'indirizzo (quindi occhio: per digitare l'indirizzo di questo blog ci va il trattino tra "memoria" ed "esterna").
Si tratta di uno spazio radicalmente personale nei contenuti (per questo ho deciso di non ricorrere più ad alcun nickname) e che pur nascendo, in un certo senso, da una costola del mio precedente blog, parte da premesse sostanzialmente diverse. Esso avrà in fatti un'identità più  rigida e definita, dato che l'unico imprescindibile comune denominatore ad attraversare ciascun post sarà il tema dei ricordi (ovvero solo uno dei tanti temi occasionalmente trattati nel mio precedente blog).

In questo senso, il titolo di questo blog ne indica una duplice funzione. Innanzitutto quella di  luogo in cui creare un archivio, una sorta di copia di backup della mia memoria: siccome ho poca fiducia nelle mie capacità mnemoniche, sento il bisogno di raccogliere e fissare da qualche parte tutti i ricordi che, di quando in quando, stimolati da una foto, da una musica, da un odore, da una persona, guizzano fuori dall'oblio. In altre parole, voglio salvarli da qualche parte prima che sbiadiscano del tutto, non solo per me ma anche per i miei figli.
La seconda funzione indicata dal titolo del blog è quella di vera e propria esternazione della memoria. Se volessi soltanto raccogliere dei ricordi, potrei limitarmi a tenere un diario privato, senza per forza aprire un blog. Francamente, però, non provo alcun gusto, né interesse, a scrivere senza essere letto da qualcuno, fossero anche quattro gatti i miei lettori. La mia personale sfida è dunque questa: scrivere qualcosa di prettamente personale e vedere se riesco a renderlo interessante nonostante riguardi solo me e pochi altri (e nonostante io abbia vissuto, almeno finora, un'esistenza tutt'altro che avventurosa).

Ed ecco che arrivano gli interrogativi: ne sarò in grado?
E sarò in grado di raggiungere almeno i quattro anni di durata del mio precedente blog?